lunedì 27 ottobre 2014

provini - Il viaggio più lungo, Massimo Granchi

Il viaggio più lungo
Massimo Granchi



L'aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. «E’ ora di muoversi», disse. 
Intravide uno spiraglio di vita oltre le immagini sfuocate dell’alba. L’eco delle sue parole risuonò nella sua mente. Prese il tempo necessario a soppesarle. Si erano amplificate irradiandosi dalla testa al cuore. Indugiò sulla panchina che la ospitava. Sentì la consistenza delle sue ossa e della pelle sotto i vestiti. Erano trascorse ore da quando si era fermata. Non sentiva freddo eppure lei era sempre stata freddolosa. Da ragazza rinforzava il letto con due coperte, infilava la vestaglia e chiudeva la finestra. «Almeno d’estate, Elena mia, dormi con la finestra aperta. Lascia entrare aria.» l’ammoniva sua madre. «Quest’aria viene dal mare. Sai che ne hai bisogno.» Elena era esile e chiara di carnagione. Sua madre la guardava con amorevole sospetto. Era preoccupata che non riuscisse a maturare. Anche Elena si osservava i seni sperando che facessero capolino. Non era mai stata vanitosa. Non comprendeva il corteggiamento perché non concepiva di essere oggetto di desiderio. Era insicura. Sua madre lo sapeva e le aveva insegnato a cucinare, a ricamare, a governare le bestie perché fiorissero almeno le sue capacità. Elena si era fortificata dentro a una consapevolezza discreta. Le sue doti pratiche si erano affinate nel tempo. Quando il suo corpo era esploso nella pubertà, e i fianchi, i seni, le cosce erano rigonfiate di vita, lei fu colta di sorpresa. I turbamenti fisici divennero quelli dell’anima e s’innamorò di Maurizio al primo sguardo.

Seduta sulla panchina in viale Mazzini, Elena liberò un sorriso. Rabbrividì nei ricordi. Fu l’istante in cui comprese di essersi fermata per prepararsi a ripartire. «E’ ora di muoversi», ripeté. La sera prima era uscita da casa con il buio per gettare le buste della spazzatura. I bidoni erano poco distanti dal portone ma lei si era preparata a un percorso più lungo. Aveva scelto gli abiti, si era raccolta i capelli grigi in una crocchia, si era allacciata la collana di perle al collo, aveva infilato le scarpe comode ed era uscita senza bastone. Maurizio la invitava spesso ad accompagnarlo lungo i viali e fino alla Fortezza Medicea, ma lei resisteva. Lui irrideva con affetto la ritrosia della donna. «Fuori c’è un mondo che devi scoprire» le diceva. Elena non ne aveva bisogno. Il suo mondo era lui e ciò che custodiva in casa, al secondo piano del palazzo di viale Mazzini. «Vai tu che senti il bisogno di salutare anche i gatti!» rispondeva Elena. Non alzava lo sguardo per osservare Maurizio. Continuava a rammendare la calza in silenzio mentre aspettava che il sugo finisse la cottura nella sua vecchia pentola di rame. Gli occhi di suo marito erano sempre stati i suoi. Egli le riportava i colori, i suoni e i profumi raccolti oltre le mura domestiche. Lei ricamava fantasia, la confrontava con la memoria, con ciò che vedeva in televisione o nel tratto di strada che andava dal cancello alla bottega. Era padrona consapevole di quel mondo. Nessuno come lei conosceva le strategie di mediazione, la pazienza, l’arte di arrangiarsi per risparmiare.

Di tanto in tanto qualche auto occupava la strada. Percorreva timidamente l’asfalto di fronte a Elena ancora immobile sulla panchina. Le luci dei lampioni si erano spente. Il sole indorava il profilo dei pini. La notte era lontana. La donna si strinse nel cappotto. Rammentò le raccomandazioni di sua figlia Claudia. «Esci da casa mamma. Prendi un po’ d’aria. Ti farà bene» Cosa avrebbe pensato vedendola nel viale seduta su una panchina alle cinque del mattino? Chissà se era questo che sua figlia intendeva per distrazione? Elena era stata previdente. Aveva messo le calze di lana e il cappello. Aveva portato con sé il cellulare. Ogni sera Claudia la chiamava per augurarle buona notte. La sera prima era stata lei a mettersi in contatto. Sua figlia ne era rimasta meravigliata e felice. Dopo aver gettato le buste della spazzatura Elena si era avviata nel buio sotto il riverbero delle stelle, tra odori di resina e terra. Era arrivata sino al parco deserto della Lizza. Era passata di fronte ai bagni pubblici. Un uomo anziano a veglia, accoccolato su una sedia posta all’ingresso, l’aveva guardata con interesse. Lei lo aveva salutato consapevole di aver compiuto un gesto di solidarietà verso un’altra creatura sola. Aveva camminato ancora. Aveva pensato al suo primo incontro con Maurizio nella balera del paese. Lo aveva visto danzare con sua sorella. Il suo invito a condividere l’ultimo ballo l’aveva sorpresa. Era arrossita al ricordo delle serate che il suo innamorato le aveva rubato davanti alla finestra della casa paterna. Poi aveva ricordato l’ultimo loro saluto silenzioso, i loro sguardi carichi d’intensità e di una paura senza ritorno prima che lui morisse. Erano stati sposati per sessant’anni. Sempre uniti. Lui era stato un uomo forte ed espansivo. Non si era ammalato mai. Lei era una donna silenziosa, mite e cagionevole. Chi lo avrebbe mai detto? Chi? Quella notte Elena aveva camminato come non aveva mai fatto, accompagnata da una malinconia sottile. Era finita poi sulla panchina di fronte a casa sua. Aveva deciso di ricordare così suo marito e di riordinare alcuni punti di riferimento. Aveva infine scelto di continuare a vivere per compiere il suo viaggio più lungo. «E’ ora di muoversi», disse un’ultima volta e finalmente si avviò.

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