martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Una luce nuova, Viviana Cardone

Una luce nuova
Viviana Cardone

Un altro incubo. L’ennesimo. Un’altra sbornia, questa volta più pesante, le annebbiava la vista. Ancora un’altra volta quell’insopportabile disgusto per se stessa e per un’altra notte trascorsa in un letto freddo ed estraneo. Un letto che apparteneva a nessuno eppure a tutti: a tutti quelli che vi si erano rifugiati, per rubare alla vita qualche ora lontana dal rumore del mondo, magari in compagnia di un amore proibito, di un amore incompreso o semplicemente di un amore. Quel letto adesso ospitava Ania che, tra candide lenzuola di pizzo, aveva venduto il suo corpo e il suo spirito, di certo non per amore. Per compiacere invece uomini, come quello che l’aveva appena lasciata sola e a cui aveva permesso di violarla ancora. Uomini che bramavano solo appagare la perversione dei loro animi, frustrati ed incapaci di amare. Quegli uomini che avevano calpestato senza scrupoli, con piedi pesanti e sporchi il suo cuore acerbo di adolescente smarrita. Non era più sicura Ania, come lo era stata diversi mesi prima, di poter controllare tutto. Aveva tristemente scoperto che non era vero che avrebbe potuto fermarsi quando voleva. L’adrenalinica sensazione di sentirsi forte, importante, capace di dominare e piegare un uomo, anche solo per una notte, era svanita. Non aveva più alcun valore adesso, tutto quel denaro ch’ella aveva creduto capace di renderla sicura e di sotterrare quella fragilità, che per anni, l’aveva fatta sentire inadeguata tra i banchi di scuola. Un senso di vuoto adesso dilaniava la sua anima. Odiava se stessa e quelle persone che avevano distrutto i suoi sogni, rendendola cinica, disillusa e arida. Non ricordava nemmeno più come fosse cominciata quella repentina discesa verso l’inferno. Ne sentiva però, tutta la fatica nelle gambe esili e brune, che aveva concesso di profanare, nelle braccia lisce con cui sapeva avvolgere i suoi carnefici. E ancora nella testa che pulsava di dolore e nel cuore indurito dal peccato. Il pensiero di farla finita era ossessivo e la tentava da un po’ di tempo. Si fermò ad osservare i calici di cristallo sul comodino, con i quali durante la trascorsa notte aveva affondato nell’alcool i residui di dignità che ancora provava. Aveva bevuto champagne di altissima qualità offertole dal cliente per “festeggiare” la sua promozione, in realtà per rendere più accettabile, a se stesso e alla ragazza, l’oltraggio che di lì a poco si sarebbe consumato. Ania afferrò furiosamente quei bicchieri e con tutto l’odio e il disprezzo che nutriva per la sua vita, li scagliò contro il pavimento frantumandoli in mille pezzi, come se distruggerli avesse significato cancellare le tracce di ciò che era successo. Stette, ancora un altro lungo minuto, ferma a guardare quelle schegge di cristallo sparse a terra, che curiosamente somigliavano a delle stelle. Come stelle splendevano, ma non di luce propria. Candidi raggi di sole filtrati dalla finestra precipitavano su quei frammenti come fulmini, e si rifrangevano, scomponendo la luce in mille colori che accendevano la stanza. Ania allora, pensò al cielo e si domandò dove sarebbe andata, dopo la morte. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi una volta giunta al cospetto del Creatore? Costui l’avrebbe punita? Perdonata? Biasimata? O magari non c’era proprio nulla dopo la morte. Chi poteva dirlo con certezza? Tuttavia, ciò che le premeva adesso era sparire, smettere di vivere, soffocare quell’esistenza senza gioie, corrotta, macchiata e inutile. Si diresse verso la finestra e si affacciò. Il suo sguardo si perse nel vuoto. Per lunghi istanti tutto, intorno a sé, sembrò tacere. Solo il silenzio: l’assordante silenzio della sua anima. Il cuore ansimava per uscire dal petto. “Solo un salto”, pensò. “E sarà finita, per sempre”. Le mani madide di un sudore pesante come il piombo facevano fatica a stringere il parapetto. Una spinta, poi un tonfo. Due, tre minuti di agonia prima della fine. Immaginava, programmava, simulava. Nella sua mente la scena si ripeteva a rallentatore in un realismo tale da farle credere di averlo già fatto. Intanto era ancora lì, affacciata alla ringhiera. Poi una voce riuscì a distoglierla dalla sua catalessi. Dalla strada, un bambino richiamò la sua attenzione, le faceva cenni con la manina e le rivolgeva sorrisi carichi di gioia e purezza. Quella purezza che credeva di aver perduto irreversibilmente e che per riaverla avrebbe dato la vita, appunto. Il sole incandescente di agosto che illuminava il suo viso, ricoperto dal rimmel sciolto che scorreva ancora sugli zigomi, le impediva di tenere aperti gli occhi ancora arrossati dal pianto. E quando riuscì a riaprirli, fissò il cielo e l’intenso pigmento nocciola dei suoi occhi rifletté quei raggi che per un attimo li colorarono di giallo grano. Quello scontro provocò una luce nuova, una luce rigenerante. Ania avvertì infatti, una sensazione dì conforto pervaderle la schiena. Quei raggi, chissà perché, adesso le infondevano rassicurazione, coraggio, perdono. Cominciò a desiderare di risalire in superficie, farsi trasportare da quei raggi di speranza e raggiungere il sole. Iniziò a maturare la consapevolezza che morire non sarebbe stata la soluzione, sarebbe stata invece un’altra dimostrazione della sua fragilità, della sua inadeguatezza. Un altro fallimento, questa volta irrimediabile. Forse invece, la sorte avrebbe potuto riservarle qualcosa di bello, di puro, come il sorriso di quel bambino. In fondo aveva tutta una vita davanti a sé. Perché non crederci? Sapeva che sarebbe stato difficile dimenticare, e ritornare a sorridere. La vergogna che provava per se stessa non sarebbe svanita così presto, così come l’odio e la diffidenza verso gli uomini. Ma avrebbe ricominciato tutto daccapo. Rientrò in camera e calpestò coi piedi nudi le schegge splendenti. Notò che non facevano poi così male. “Schegge di luce” pensò, ritrovandosi a far sbocciare un timido sorriso. E splendendo, insieme alle sue schegge di luce, prese il telefono. Le dita tremanti composero in fretta un numero, conosciuto a memoria, ma non digitato da tempo. Tre squilli. Un minuto in silenzio, poi un respiro di sollievo. Infine, con la voce rotta dalla commozione e con la voglia di rinascere che le pulsava nelle vene, riuscì finalmente a rispondere “Mamma…?”.

semifinale - Cose per cui vale la pena vivere, Adelaide Aisha Melato


Cose per cui vale la pena vivere 
Adelaide Aisha Melato

In quella tarda mattina di dicembre faceva un gran freddo.
Estella, raggomitolata tra le coperte, nascondeva il cellulare sotto il piumone blu. Gli stava scrivendo e non si era neppure accorta delle scaglie di ghiaccio che volteggiando, ammorbidivano il mondo.
Chiuse gli occhi sospirando ed appoggiando il telefono sul petto, aspettando con ansia che vibrasse.
I suoi erano stati i primi auguri di Natale che lei aveva ricevuto. Lo erano sempre stati, da quando lo aveva conosciuto.

- Tanti auguri anche a te. Ci vediamo al solito posto tra un'ora. - gli aveva risposto.

Un'ora dopo erano seduti uno di fronte all'altra, al tavolo di un bar. Lei teneva tra le mani la tazza ancora calda, più attratta dal calore, che dal cappuccino. Lui invece addentava il cornetto al cioccolato.

Sei tutto sporco di zucchero a velo - lo avvertì ridacchiando.

Terminarono la colazione in silenzio. Gli anfibi neri di Estella si muovevano disegnando piccoli cerchi. Gli occhi scuri fissavano l'alone marroncino sul fondo della tazza ormai vuota. Del suo cappuccino caldo era rimasto solo quel triste alone.
Spostò lo sguardo sul braccio di Splinter, appoggiato al tavolo. Era coperto dal cappotto nero, ma lei sapeva che sotto quella stoffa c'erano delle cicatrici che in quel momento le ricordavano molto quell'alone. Stavano lì, aggrappate alla sua pelle come un fastidioso promemoria del suo passato.
Chissà se anche lui, come la tazza, si sentiva solo.

Come stai? - le chiese, stupendola.

Non erano soliti farsi quel tipo di domande. Lei si accigliò, riflettendo. Era un po' che nessuno glielo chiedeva.

Quasi bene. E tu? - lui sorrise alzando gli occhi chiari.

Quasi bene.

Estella e Splinter non avevano niente in comune. Né l'aspetto né i gusti musicali, per non parlare del carattere. Loro erano due tazze vuote che lottavano, come solo due adolescenti riescono a lottare, per riempirsi di nuovo. Si erano conosciuti nello studio della loro psicologa. Era un ambiente piccolo, ma accogliente.
Ricordò quel giorno: Estella stava seduta sulla poltroncina in modo scomposto e scocciato. “La seduta sarebbe dovuta cominciare alle 8.30” pensava guardando l'orologio.
Sbuffando, cercò nella borsa i suoi auricolari e sbuffò nuovamente nel trovarli tutti intrecciati. Li appoggiò sulle ginocchia e iniziò a districare i fili.
Dopo pochi minuti sentì la porta aprirsi. Fu allora che vide Splinter, per la prima volta.
Estella ritornò al suo presente. Lui si mosse sulla sedia del bar, distogliendola dai suoi pensieri.

Ti ho preso una cosa - disse estraendo dalla tasca una scatolina avvolta in un delizioso involucro natalizio.

Lei allungò la mano imbarazzata e sorpresa, scuotendola accanto all'orecchio. Sorrise, sciolse il fiocco e strappò la carta impaziente. Appoggiato sopra uno strato di morbido tessuto bianco, stava un ciondolo dorato. Ne accarezzò con il dito tutta la circonferenza, poi si soffermò sulle piccole schegge, che vi erano incastonate al centro. Estella sentì gli occhi diventare umidi.

Auguri scheggia - disse lui a voce bassa, guardandola.

La mente di Estella vagò ancora: era il 17 luglio. Aveva già trascorso metà della sua estate, prima dell'università, tra film horror e maratone di serie televisive. Si ripeteva che stare un po' a casa a rilassarsi le avrebbe fatto bene, eppure le sembrava di disubbidire alle raccomandazioni della sua analista. “Concentrati solo sulle cose belle” le aveva detto. Estella prese carta e penna, si raggomitolò di nuovo sul divano e cominciò a pensare. “Cose per cui vale la pena vivere” chiamò la sua lista.
Il mare, annotò istintivamente. Sorrise soddisfatta, poi si fermò a riflettere. Non avrebbe più potuto usare un costume. Il suo corpo non era un bello spettacolo dopo l'incendio. Così il mare venne cancellato.
La musica. Sì, ma aveva bisogno di potersi aggrappare a qualcosa che non fosse un'idea astratta.
I libri. Certo. Ma quanto ci avrebbero messo gli e-book, gli i-pad e tutti quei congegni elettronici a rimpiazzare la carta?
Andò avanti così per un po'. Poi scosse la testa e si guardò intorno, cercando qualcosa per cui valesse davvero la pena reagire.
IO, scrisse prima di addormentarsi.

Splinter era arrivato portando con sé tutta la sua freddezza e la sua strafottenza. Avevano chiacchierato, discusso riguardo finali di libri o scelte del cast di film... Avevano trascorso del tempo insieme, parlando di cose che la facevano sorridere. La guardava come se non si accorgesse neppure del suo viso sfigurato. Era così naturale il suo modo di interagire con lei, così spontaneo, che riusciva a farla sentire quasi bella.

- Io e te non abbiamo niente in comune - gli aveva detto lei un giorno, ancora agitata per la discussione appena avuta a proposito di una vecchia band.

- Ti sbagli. Sai cosa vuol dire il tuo nome? - lei si era accigliata confusa, cercando invano di capire quale fosse il nesso tra il loro discorso e quella domanda.

Non lo so, penso “stella” - lui la guardò simulando con la bocca un rumore simile a quello dei buzz di certi talent.

- Sbagliato di nuovo. “Estella” in catalano vuol dire scheggia. - lei aveva annuito. Le piaceva “scheggia”, molto più di stella.

- E sai cosa vuol dire Splinter? - aveva continuato lui. Estella scosse la testa.

- Scheggia. Splinter in inglese vuol dire scheggia.

Estella sfiorò il ciondolo muovendolo. Era una delle cose più belle che avesse mai ricevuto. - E' bellissimo - disse guardando il ragazzo seduto di fronte a lei.

- Ho anche io qualcosa per te - aggiunse rovistando nella borsa e tirando fuori un sacchettino.

Splinter accarezzò la copertina in cuoio marrone del diario che aveva appena sottratto al suo pacchetto. Non disse neppure una parola. Catturò con lo sguardo ogni dettaglio del prezioso regalo che gli era appena stato fatto.

- Voglio che tu scriva... - disse lei con tono severo. Splinter annuì, sorridendo senza sollevare lo sguardo.

La neve continuava a cadere, il mondo continuava a girare, le persone a respirare, i bambini a piangere, gli alberi a produrre ossigeno e loro continuavano a stare quasi bene. Forse un po' meglio di prima.

Splinter ed Estella non avevano in comune né l'aspetto né il carattere né i gusti musicali. Erano due schegge, sapevano di appartenere a qualcosa di più grande e lo cercavano, insieme.

semifinale - Il pianto del baobab, Serena Lavezzi

Il pianto del baobab
Serena Lavezzi

Le persone mi guardano in modo strano, so che è per colpa di quelle schegge che mi sono entrate nel cervello tanto tempo fa. Alzano le sopracciglia quando mi vedono e se mi riconoscono, le alzano ancor di più. Questo è un quartiere piccolo, pochi corpi, tante lingue e tutti sanno cosa è successo nove anni e mezzo fa.
Da ragazzina vivevo in una grande villa, poco fuori le mura. Avevamo cinque persone che lavoravano per noi, cani scorrazzavano nel cortile. Vivevo lì con i miei genitori, i miei fratelli, i miei nonni, gli zii e un bisnonno centenario. Qui da noi le tradizioni sono molto importanti e sebbene facesse quasi fatica a parlare, era ancora lui il capofamiglia e prendeva le decisioni rilevanti per tutti.
Adesso non ho più nessuno che mi dica quali sono le scelte migliori per me e per il mio futuro, l'unica scelta me l'ha data il Destino e io ho dovuto accettarla. Da qualche anno vivo all'ultimo piano di uno stabile lasciato a metà dall'impresa edilizia, che d'improvviso ha abbandonato tutto. Le scale sono molto pericolose, bisogna sempre tenersi legati con una corda ad un corrimano di fortuna, che hanno costruito gli inquilini con pezzi di legno e colla. Per questo motivo rimango in casa.
Spesso non faccio neanche la spesa, il ragazzino della famiglia che vive all'ultimo piano con me, esce e mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Io accetto volentieri, penso siano le uniche persone ad essere gentili con me.
L'appartamento è composto da una grossa stanza, c'è il lavello, il fornello che funziona soltanto in alcune ore della giornata, un materasso buttato a terra, un tavolino basso. Un bagno, l'unica fortuna di tutto quello che mi circonda, anche se devo pulire il water con il secchio. C'è un balconcino pericolante che dà sul deserto, forse volevano farci un cortile ma c'è ancora la sabbia.
A volte, in certi giorni, i ricordi mi sfuggono e vedo solo delle ombre. Resta tutto a galleggiare sull'orlo della mia memoria, come un liquido bianco e viscoso, ma non riesco ad afferrare i dettagli. L'unica cosa che non dimentico mai, è quel giorno.
Mia nonna diceva sempre “Non si esce di casa quando il baobab piange” e forse, se quella mattina lo avessi ricordato, la mia vita sarebbe andata diversamente.
Ero uscita all'alba, dovevo prendere l'autobus per Abuja, per andare a portare dei pacchi ad una zia ricoverata in ospedale. C'era un forte vento che alzava polvere gialla e muoveva i rami dei baobab, l'aria, passandoci attraverso, creava un suono simile ad un lungo lamento.
Quando arrivò il bus, eravamo in trenta ad aspettarlo, quasi tutte donne, nessun bambino e qualche anziano. Un uomo portava una gabbia con dei pappagallini arancioni, non potrò mai scordarmi degli striduli acuti che avrebbero emesso di lì a poco.
Io presi posto nella prima metà della corriera, posai i pacchi sul sedile accanto al mio sperando che nessuno m'importunasse; avevo solo vent'anni ed ero uscita da sola poche volte: avevo paura di tutto. Questo mio atteggiamento remissivo e timido aveva convinto mio padre, e prima di tutti il bisnonno, a lasciarmi andare da sola fino ad Abuja.
Il viaggio sarebbe dovuto durare tredici ore, destino volle che dopo cinque l'autista ebbe un colpo di sonno. Viaggiavamo in mezzo a zone diroccate di un vecchio villaggio abbandonato, l'autobus iniziò a slittare sulla stretta strada di sabbia, il muso urtò a destra contro un enorme albero e venne sbalzato a sinistra. Girò su sé stesso cinque, forse sei volte e poi si schiantò contro un vecchio condominio diroccato che non resistette all'urto. Dei mattoni ci precipitarono addosso e una nuvola di fumo avvolse tutto, l'autobus venne schiacciato e ci fu solo buio, per tutti. Io vidi il cielo diventare nero e il tetto della corriera che mi veniva incontro, poi mi risvegliai in ospedale, ad Abuja.
Appena aprii gli occhi pensai che era proprio il posto dov'ero diretta, alla fine ci ero arrivata, non riuscivo a pensare ad altro che a mia zia. La sera venne un dottore e indicò il mio viso, ricordo bene il suo polpastrello, era nero come l'ebano e puntava al mio lato sinistro.
Mi disse che ero l'unica sopravvissuta, grazie ad Allah aggiunse, ma che purtroppo avevano dovuto intervenire chirurgicamente al cervello per via di grandi schegge che si erano infilate durante l'urto dalla guancia sino a metà cranio. Alla fine il tettuccio mi aveva raggiunto e squarciato a metà il viso, una linea diabolicamente perfetta mi aveva diviso.
A destra la pelle liscia, l'occhio scuro, le labbra carnose ancora s'innalzavano con un certo orgoglio; pensai alla prima volta che mi diedero uno specchio. Il lato sinistro era un'altra storia, potrei dire rattrappito, ma era qualcosa di più, la mia pelle appariva come la carta in cui avvolgono il pane gli ambulanti. Quando arrivi a casa, tiri fuori la pagnotta, accartocci l'involucro e lo butti via: la mia faccia era così, accartocciata, ma non avrei potuto disfarmene così facilmente.
Da quel giorno decisi che non mi sarei più guardata allo specchio e fu più facile del previsto. Rimanendo sola dovetti fare molta economia e non avrei potuto buttare via i soldi per un oggetto così inutile, né lo volevo.
Per il cervello, il dottore disse che avrei potuto avere sbalzi di memoria, ma che nel complesso non avrei avuto problemi. Ci penso spesso a quel giorno, credo sia normale, anche ora che sono seduta per terra sul balcone. Fumo un mozzicone di sigaretta e guardo il cielo, non c'è una nuvola.
Non so dire se sono stata troppo sfortunata o tanto fortunata, in fondo sono ancora viva. Ho una vita semplice, pochi pensieri, poche preoccupazioni, tutto ruota intorno a poche cose, il recipiente di latta colmo di latte fresco, una pagnotta calda, una banana fritta, un giornale nuovo. Mi va bene così, finché posso guardare l'orizzonte e sognare ad occhi aperti, scrutando il deserto.
Solo ogni tanto, inspiro dalla narice buona e mi sembra ancora di sentire il profumo di quando mia madre rovesciava il miele caldo sul riso.

semifinale - Non farsi male, Oriana Tardo

Non farsi male
Oriana Tardo

Martellava come un tamburo la penna, priva d'inchiostro, che Dalia stringeva fra le dita, agitandola contro il tavolo. Solo quel suono ritmato rimbombava nella stanza, come un'eco nel silenzio, come un muro o un foglio quando è bianco. Dalia restava lì, nella sua baita di montagna, in cerca di parole che non si confondessero con la neve. Venivano giù come cristalli e, come neve, si scioglievano al contatto con la carta. Parole invisibili, parole a dissolversi. Intanto, fuori dalla finestra gli alberi, ombre nel biancore, apparivano a Dalia come macchie d'inchiostro indistinte. Il paesaggio fuori e lo scrittoio dentro la stanza venivano a confondersi, giungendo come visioni distorte alla percezione di Dalia. I confini tra dentro e fuori, tra pensiero e materia, tra sogno e lucidità si offuscavano. Dalia rimaneva lì, nella sua baita, tre mesi d'inverno, in cerca di calma, in cerca di calore. Ogni anno, il giorno del suo compleanno, a novembre, si trasferiva in quel luogo di pace e di leggerezza, rimanendovi per tre mesi. Da nove anni ormai il suo compagno si premurava di accompagnarla, in auto, fino alla baita. La salutava sull'uscio, sfiorandole le labbra con una carezza e le raccomandava di non farsi male, di prendersi cura di sé, più d'una volta le sussurrava all'orecchio: "stai attenta... non farti male".

Dalia amava isolarsi per qualche periodo, cullarsi tra sè e sè, era l'unico modo per sentirsi al sicuro. La solitudine era l'unico luogo in cui si sentiva protetta dai pericoli esterni. Si sentiva fragile, e lo era davvero. Viveva con la paura di sgretolarsi, di rompersi come vetro. Non poteva concedersi alcuna distrazione, sempre attenta ad evitare un gesto sbagliato, un movimento istintivo delle mani, delle braccia o delle gambe, che potesse urtare contro qualcosa, lì fuori. Un mondo fatto di oggetti pericolosi, invisibili poiché innumerevoli. Un mondo acuminato, ogni cosa appariva a Dalia come una lama pronta a infilzarsi nel suo involucro fragile. Per tenersi lontana dalla paura aveva bisogno di isolarsi, anche solo per un po', evitando il contatto con tutto ciò che potesse colpire le sue ossa. Ossa di carta. E sulla carta amava costruire e ricostruire altre vite, narrare di altri in carne ed ossa, mentre guardava la sua vita in uno specchio scheggiato, i cui frammenti restano ancora uniti, come un mosaico o un puzzle che si scompone e ricompone. Fratture nei giochi d'infanzia, caviglie fasciate per danzare, giorni passati su un letto d'ospedale ed altri vissuti tentando di non farsi male.

La baita era un rifugio dove riusciva a non farsi male. Ogni cosa era rivestita di spugna affinchè quel piccolo mondo esterno fosse morbido e sicuro, c'erano cuscini in ogni angolo della stanza, l'intero pavimento era coperto di tappeti. Lo scrittoio in legno era l'unico oggetto non rivestito di spugna e potenzialmente pericoloso, cui Dalia faceva però molta attenzione. Lì scriveva, sedendo su una comoda poltrona.
Stringeva la penna fra le dita, in attesa di parole da ordinare, da intrecciare in una trama leggera e scorrevole, una trama che non si spezzasse, come le sue ossa, solo perché via via si consumava l'inchiostro. Le parole sulla carta divenivano invisibili, dalla penna non scorreva più inchiostro, ma lei continuava a scrivere, senza vederle continuava a inciderle sulla carta. Via via premeva più forte sul foglio, fino a traforarlo, le parole si scolpirono sul legno, oltrepassando la carta. Solo allora, quando il foglio fu ridotto a brandelli, Dalia si rese conto di aver inciso parole sul tavolo.
D'istinto gettò carta e penna, come se qualcosa, una voce interiore, le suggerisse chiaramente cosa fare, l'incisione sullo scrittoio la destò e fu come illuminata dalla presa di coscienza. Pensò di scolpire le storie che amava inventare. Anzi, nemmeno più storie pensava di narrare, ma scolpire frammenti, brevi pensieri, aperti ad ogni libera interpretazione. Non doveva più nascondersi dietro altre storie, altre vite sognate, era giunto il momento di ricostruire la sua vita, nè carta nè penna potevano esserne gli strumenti. Come rune, i suoi frammenti di vita erano simboli da scolpire su altrettanti frammenti, sassi, schegge di vetro come di osso, di quarzo, come cristalli.
La runa bianca del destino, la runa della protezione, la runa del tasso a rappresentare la resistenza, la runa del ghiaccio o dell' isolamento, le rune dell'acqua e del sole, energie vitali, la runa del risveglio.
Dalia cominciava a scontrarsi coi propri ricordi senza farsi male, ricostruendo le sue fratture come simboli della sua malattia, una rara malattia genetica, chiamata osteogenesi imperfetta, che rendeva le sue ossa fragili, pronte a rompersi come schegge. Dalia venne al mondo con fratture spontanee alle braccia, non le fu concessa la cosa più preziosa dell'infanzia... giocare non era affatto una cosa semplice e spontanea, giocare, come tutti gli altri bambini, le provocava ripetute fratture. Eppure, non volle mai isolarsi in una campana di vetro, ma restare nel mondo, il mondo delle cose, come uno specchio scheggiato che non cede, mai cade. Pezzi disgiunti e ricongiunti per rimanere in piedi, accogliendo la vita. Solo più tardi, in età adulta, Dalia cominciò a nutrire un più forte bisogno di sentirsi al sicuro, di cercare una baita tutta per sé per evitare di farsi male, per la paura di invecchiare ed essere sempre più fragile.

Lo specchio scheggiato era lì, appeso ad una parete, Dalia lo colpì, lanciandogli contro un pestello di marmo, e le schegge esplosero nell'aria prima di cadere a suon di fata. Raccolse poi i frammenti dal pavimento, ordinandoli l'uno accanto all'altro, e con una lama cominciò ad incidere su ogni scheggia un simbolo, un numero o una lettera dell'alfabeto che rappresentassero i momenti vissuti con gioia, quando per un attimo dimenticava le sue ossa fragili e si teneva stretta in un abbraccio sicuro. Solo allora, riordinando quei frammenti, comprese che il mondo fuori non era solo il mondo delle cose, fatto di pericoli, c'era anche un altro mondo che non era riuscita a vedere prima, qualcosa che non si lasciava rompere. Un luogo sicuro dove non farsi male non era più la solitudine ma l'amore... l'amore che riceveva dagli altri e quello che sapeva donare loro, senza mai esserne consapevole. L'amore non è mai stato fragile come le sue ossa, è un flusso di schegge d'infinito che congiungono alla vita.

semifinale - Qualcosa di me, Norma Nassi


Qualcosa di me
Norma Nassi

Non avrebbe dovuto esserlo, eppure era così. La bella casa in pieno centro, arredata finemente e piena di luce, sembrava deriderla. Di più, prenderla letteralmente a schiaffi. Si guardò nello specchio grande della camera da letto: i capelli neri, lisci e lunghi, perfettamente acconciati, il filo di trucco che metteva in risalto il suo viso (di ordinaria bellezza, come dicevano da sempre), ed il fisico longilineo fasciato nel suo solito tailleur grigio antracite… era tutto come sempre. Come doveva essere e com’era sempre stato. Sarebbe rimasto tutto così anche adesso? NO.
La voce le veniva da dentro, chiara e forte, come tutte le volte in cui si era fatta sentire. Ed ogni volta l’aveva ignorata, nonostante la sua innegabile potenza. Poteva farlo anche stavolta?
Avrebbe di nuovo finto di essere come doveva? Non ne era certa, ma doveva provarci…. almeno così doveva essere per gli altri.
Lei, che da sola aveva riportato agli antichi fasti il nome della sua nobile famiglia... e poco importa quanto crudele e spietata aveva dovuto essere per riuscirci. Aveva semplicemente fatto quello che doveva alla memoria della sua defunta nonna di cui portava il nome. Sorrise al ricordo di come aveva affrontato Cornelia, la prozia, autoproclamatasi il perno della famiglia, per via di un vecchio torto fatto a sua madre. Sulle prime la donna non l’aveva riconosciuta, ma non appena si era presentata, l’aveva vista impallidire.
Che vuoi da me?
Conoscerti, per cominciare. E poi… beh, devo informarti su quello che accadrà a ciò che reputi di tuo diritto.
Neppure l’intervento delle due figlie della megera le avevano impedito di fare il suo dovere. Era bastato far capire di conoscere la verità sul suo conto e l’anziana prozia aveva abbassato le penne: i piani iniziali di Lorena erano ben diversi, ma ormai era soddisfatta. Sebbene una parte di sé volesse dare il colpo di grazia a quell’arpia, sapeva che farle rinunciare al nome di famiglia era una mera attestazione della verità. Quella donna, che si credeva il centro del mondo, non aveva fatto altro che contrarre un matrimonio vantaggioso e approfittarne. A Lorena era sempre importato poco del suo titolo, ma anche se fosse stata di umili origini, non avrebbe mai voluto essere accostata ad una donna simile dal termine più prezioso per lei: famiglia.
Aveva già concordato con l’avvocato la prassi per l’annullamento del matrimonio in base alle bugie che erano state dette al suo prozio, e aveva richiesto l’impugnazione del testamento: la voleva fuori dalla famiglia a tutti i costi, anche se il suddetto parente era morto da un pezzo. Voleva mostrare a tutti che quella donna, che tanto aveva detto a sua madre quanto non fosse una vera appartenente dei Della Croce, valesse meno di quanto credeva. E c’era riuscita, senza ombra di dubbio.
Una vecchia foto sul comò attirò la sua attenzione; prese la cornice argentata fra le mani e osservò le figure che vi erano ritratte, sentendo uno strano rimescolio alla bocca dello stomaco. Una coppia in abito da sera che guardava l’obbiettivo con occhi sognanti ed un sorriso radioso, stretti in un abbraccio che per Lorena era sempre stato difficile definire. Lui indossava una camicia bianca, senza alcuna cravatta (come sempre), ed il suo sorriso la diceva lunga su quanto fosse felice in quel momento. Lei, i capelli raccolti in uno chignon ordinato, con qualche ciocca che le ricadeva sulla fronte e sulla nuca, ed avvolta in un semplicissimo tubino nero, sorrideva raggiante mentre la sua guancia abbronzata sfiorava quella più chiara di lui. Persino i calici che tenevano in mano sembravano brillare alla luce di tutta quella gioia.
Lorena non riusciva a credere che quella fosse stata davvero la sua vita, dieci anni prima. E credeva ancora meno di essere riuscita a non impazzire dal dolore quando il suo amato Giorgio le era stato strappato via dal solito tumore bastardo in pochissimo tempo, otto mesi dopo il loro matrimonio.
Quanti anni erano passati? Ormai ben sei, purtroppo lo sapeva bene. E quella bella casa, che avrebbe dovuto vederli invecchiare insieme ai mobili che avevano scelto litigando sul colore esatto da abbinare, era abituata alla sua sola presenza. Come fosse riuscita a sopravvivere, non lo sapeva neppure lei.
Non hai un’anima. Sei cattiva e non sei in grado di provare alcun sentimento. Non hai neppure una volontà…non hai niente.
Le parole iraconde, sibilate dalla sua cara zietta Priscilla, le ricordava bene, nonostante fossero passati solo due anni dall’ultima volta in cui l’aveva vista. Viva, si intende. Quattro mesi prima la dolce parente si era decisa finalmente a tirare le cuoia, e Lorena aveva mantenuto la sua parola di non presenziare alla cerimonia. Qualche ora dopo la funzione, ci aveva pensato il caro zio Gianmaria a gettarle in faccia (seppure al telefono) tutto il fango che le aveva lasciato in eredità l’amata sposa dell’ormai vedovo. Lei si era limitata a ricordargli di non essere nulla per loro e poi aveva fatto quello che ormai le riusciva bene: andare avanti.
Certo, c’erano notti in cui si chiedeva se, in fondo, l’odiosa estinta non avesse un po’ ragione sul suo conto…
Quanto ci aveva messo a camminare per strada senza piangere, dopo la morte del marito? Quattro, forse cinque giorni? Aveva dovuto far fronte a parecchi problemi, dopo quel tragico evento…esternamente appariva forte e determinata, sicura di sé com’era sempre stata da quando ne aveva memoria, e poco importava se il pensiero dell’assenza di Giorgio faceva capolino una volta chiusa la porta di casa alle sue spalle. Le mancava soprattutto quel biglietto, con un nomignolo diverso a darle il buongiorno ogni mattina, e la sera un altro nome ancora quando si coricavano. Quando erano fidanzati, il biglietto le veniva consegnato la mattina nella cassetta delle lettere e la sera con un bacio sull’uscio di casa prima di salutarsi, col preciso ordine di non aprirlo fino a quando non fosse stata sotto le coperte.
È il mio abbraccio della buonanotte, solo tu puoi e devi leggerlo. Quando ci sposeremo, potrò stringerti tutte le volte che vorrò. - le aveva detto.
Ed era vero: da quando si erano sposati, per quel poco tempo che avevano passato assieme, l’aveva stretta tutte le volte possibili ed immaginabili. Nonostante la malattia, negli ultimi tempi continuava a chiamarla sussurrando un nome diverso ogni sera, perché la mattina spesso non riusciva neppure a tenere in mano la penna. Una volta gli aveva chiesto il perché di tutti quei nomignoli e lui con un filo di voce le aveva rivelato:
Così, ogni giorno, saprai che per tutti i tuoi lati, tutti i tuoi nomi, sarai comunque la persona che amo.
Tutti i suoi lati… l’odiosa estinta aveva torto. Lei un’anima l’aveva ed una persona senza volontà non sarebbe mai riuscita a vincere contro il dolore… e per quanto riguardava i sentimenti, il fatto che non li mostrasse spesso, non significava certo non possederli affatto. Anche se si era abituata all’assenza, continuava ad avvertirla, alcuni giorni più degli altri, quando aveva meno cose da fare e la mente era libera di vagare…
“E per il nulla?” si ritrovò a pensare.
Davvero non ho niente? - il sussurro sembrò riecheggiare fra le mura spesse della camera.
“Hai avuto molto e avrai altro ancora. Buono o brutto, resterà qualcosa di tuo. Resterai tu.”
Sfiorò i due libri sul comodino, i primi regali di Giorgio, e quelle copertine rigide, che custodivano abilmente da anni fragili pagine piene di significato, la rassicurarono del tutto.

semifinale - Frammenti di vita, Cosima Sciannimanico

Frammenti di vita
Cosima Sciannimanico

Una leggera brezza soffiava sul suo volto.
Non ricordava esattamente cosa fosse accaduto: a dire il vero ricordava a malapena il suo nome.
Non riusciva a percepire nemmeno il suo stesso corpo, e sebbene non provasse alcun dolore, si sentiva incredibilmente inquieta.
Cosa stava accadendo?
Piano, provò ad aprire gli occhi sbattendo più volte le palpebre per abituarli alla luce, ma subito li richiuse. La luce che la circondava era così intensa da farli quasi lacrimare. Probabilmente era morta … Oh sì, lo era sicuramente, pensò tra sé.
- Avanti, pigrona, apri gli occhioni belli. Non credi di aver dormito abbastanza? - disse una voce maledettamente familiare al suo fianco.
- Io… non ci riesco. - sussurrò lei con un filo di voce.
- Suvvia, l’unica a decidere di riuscirci o meno sei tu, quindi apri gli occhi e guardami.
Sapeva benissimo che la sua presenza al suo fianco poteva significare solo una cosa... e cioè, che era morta sul serio.
La mano ferma di lui prese la sua.
- Sarah… Avanti, principessa, apri gli occhi.
Lei si morse un labbro e trattenendo il fiato, cercò di aprirli piano.
In un primo momento li fessurizzò, così da poter mettere a fuoco l’unica figura che rompeva tutto quel paradiso di luce.
Quando ci riuscì, sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Gli occhi azzurrissimi di lui erano sempre gli stessi ed anche i capelli biondi che ricadevano a tendina sugli occhi. Il sorriso gli si allargò ancora di più.
- Ecco la mia Sarah. - commentò semplicemente.
- Matteo… Tu… non puoi essere davvero qui... Tu sei…
- Morto? Ma dai, Sarah. Alla fine la morte cos’è? Solo una limitazione mentale a cui diamo il nome quando ancora il cuore scandisce i suoi battiti, quasi come fosse un orologio svizzero. - continuò lui, sfoderando il suo solito sorriso sghembo.
Gli occhi le si velarono di lacrime.
- Mi sei mancato così tanto…-
Lui si protese in avanti stringendola tra le braccia.
- Era perché non riuscivi a sentirmi. La tua mente era così piena dei piccoli problemi, che ai tuoi occhi sembravano insormontabili, da non accorgerti che io sono sempre stato qui, al tuo fianco. - disse lui dolcemente, quasi sussurrandoglielo.
- Ma se io sono qui con te, significa che sono morta, vero?
Temeva la risposta di lui più di qualsiasi cosa.
- Ancora con questa storia? Smettila di pensare alla morte. Qui non esiste nulla, non vi è una scadenza come per i medicinali. Ci sei tu e ci sono io. E se ti sbrighi ad alzarti, ti porto a vedere altre cose.
Ecco un'altra risposta enigmatica, tipica di Matteo.
Probabilmente non voleva dirglielo perché aveva capito quanto temesse la cosa?
- Non provare a dire che non ci riesci, sai! Dammi la mano. - continuò lui allungando la sua verso di lei.
Il punto è che Sarah davvero temeva di non farcela. Non riusciva a sentire il suo corpo, quasi come se la sua stessa anima fosse un mero ospite di quell’involucro inanimato.
Senza nemmeno rendersene conto, la sua mano aveva già preso quella di lui, che tirandola dolcemente riuscì a farla mettere in piedi. Solo allora voltò lo sguardo per vedere cosa la circondava e restò davvero senza fiato.
Una distesa verde si estendeva per chilometri sotto di loro e tutto era macchiato da fiori di mille colori ed alberi di ogni tipo. L’aria profumava di buono e dava una sensazione di pace e serenità senza eguali. Più in là poteva scorgere una scalinata, che in mezzo a quella meraviglia di colori sembrava quasi portasse in paradiso, mentre alla sua destra c’era un laghetto con una piccola cascata.
Ricordava di aver visto quel posto solo in fotografia, e la sensazione era stata completamente diversa.
- The Butchart Gardens… avevo promesso che ti ci avrei portata un giorno, ed eccoti qui. Bello, no? - chiese lui, mentre la ragazza ancora non riusciva a dire mezza parola.
Dopo un po’ si riscosse, tornando a guardarlo.
- Io… Wow, è tutto così meraviglioso da sembrare quasi un dipinto… - rispose infine.
- Il mondo ha così tanti bei luoghi che aspettano solo di essere visti... Vieni con me.
Così dicendo le prese la mano camminando lentamente verso un sentiero contornato da archi pieni di fiori dalle diverse tonalità di rosa.
- Sai, principessa… come ti ho detto, non ho mai smesso di esserti al fianco e di seguire tutti i tuoi passi. Quindi, voglio farti un paio di domande, sei pronta?
Lei annuì.
- Bene, io ti conosco meglio di chiunque altro, eppure alle volte non sono riuscito davvero a capire determinate cose che hai pensato o fatto. Tipo: nonostante tutti i problemi che hai dovuto affrontare, come hai potuto pensare di essere sola? Come hai potuto non guardarti attorno e vedere che per tutte le persone che ti danno addosso, ce ne sono almeno il doppio pronte a sostenerti?
La ragazza sospirò profondamente prima di rispondere.
- Non sono più la stessa Sarah che hai lasciato. Sono diversa… Più segnata, più debole... e sinceramente, anche se sono sicura che ci sono persone che mi amano, so per certo di non essere indispensabile per nessuno di loro.
Lui scosse la testa con forza.
- Il punto è che non ti rendi conto di quanto tu sia indispensabile per te stessa. Alle volte abbiamo la risposta a tutte le domande proprio sotto gli occhi, ma non riusciamo a vederle.
Indicò un punto in lontananza, proprio dove la distesa multicolore del giardino incontrava il cielo mentre il sole, piano, si ritirava per lasciare spazio alla notte.
- Cosa te ne pare? Non trovi che sia uno spettacolo meraviglioso? - le chiese girandosi a guardarla.
Il sole cominciava a calare lentamente, prendendo tonalità dall’arancione al rosso e di tanto in tanto si nascondeva dietro piccole nubi, illuminandone i profili, donava al panorama intorno un’aria completamente diversa da quella che aveva all'inizio, quando il sole era alto nel cielo.
- Lo vedi? È semplicemente un tramonto, no? Eppure lo percepisci in modo diverso da come hai fatto sino ad ora. Perché non ti sei mai resa conto di quanto bello ed importante fosse, lo davi per scontato; era così solo perché lo avevi sotto gli occhi tutti i giorni. È questo il significato della vita stessa: devi prestare attenzione anche alle piccole cose perché proprio quelle di cui magari non ti rendi nemmeno conto possono farti capire quanto tu sia importante.
Le sue parole l’avevano toccata così profondamente che le lacrime avevano cominciato a solcarle le guance senza che potesse provare a fermarle.
- Adesso è comunque troppo tardi… Io non posso tornare indietro… - disse lei con voce flebile.
- Perché no?! Nonostante fino a prima di ritrovarti qui tu desiderassi morire, quando sei arrivata temevi anche solo sentirti dire che c’eri riuscita. Dentro di te c’è ancora quella voglia di vivere che ti spinge a sperare e credere, solo che non riuscivi a sentirla.
- Cosa devo fare adesso? Come posso tornare indietro? - chiese, fissandolo intensamente.
- Basta desiderarlo… ripeti con me. IO VOGLIO VIVERE.
Lei chiuse gli occhi e ripeté prima piano, e poi via via con maggior vigore:
- Io voglio vivere… VOGLIO VIVERE!
L’immagine del ragazzo, seguita da tutto il resto, iniziò a sbiadire piano.
- Ce l’hai fatta principessa e ricorda… Sii forte e vivi al massimo anche per me… Ti terrò sotto controllo, sai?
Lei annuì alzando il pollice e poi gli regalò un sorriso fra le lacrime, fino a quando quello di Matteo, i Butchart Gardens e tutto il resto sparirono del tutto.
Quando riaprì gli occhi, incrociò lo sguardo di sua madre, pieno di lacrime e poi quello dei suoi fratelli e delle sue amiche.
Era in ospedale e poco alla volta cominciò a ricordare l’incidente che l’aveva condotta lì.
- Il medico ha detto che è stato un miracolo, e che solo la tua forza di volontà avrebbe potuto salvarti... - le disse sua madre poco dopo.
La sua forza di volontà, unita ad un piccolo aiuto del suo migliore amico di sempre: era quello il vero miracolo, pensò.
Non importava quanto forti fossero i dolori che sentiva in quel momento, quello che contava davvero, era il fatto che fosse ancora viva. Voltò lo sguardo verso la finestra e sussurrò piano:
- Grazie Matteo…

semifinale - Pain, Sara Filice


Pain
Sara Filice

Il bicchiere le scivolò dalle mani insaponate e tremanti, frantumandosi nel lavandino; il rosso del poco sangue che scorse, lavato via dal getto dell'acqua corrente, le rivelò in un attimo quello che aveva sempre faticosamente cercato di comprendere. Un’immagine in particolare le balenò subito alla memoria, richiamata dal suo subconscio: sempre la stessa, di quella volta in cui durante uno dei suoi giochi da bambina aveva lasciato che un grosso specchio le cadesse accidentalmente addosso. Una piccola scheggia si era conficcata nel palmo della sua manina destra, lasciandole una piccola ma profonda cicatrice. Di schegge era fatto il pavimento sul quale si era ritrovata a camminare, e piccoli pezzi di vetro colorato erano rimasti impigliati nei suoi boccoli biondi. Aveva quattro anni e non aveva avuto paura. Nove anni dopo la sua prima certezza si era frantumata come quello specchio, lasciandola agonizzante e in lacrime tra le braccia di sua madre. Aveva sofferto troppo, quando aveva lasciato la sua casa natia, il trauma del trasferimento era diventato per lei una voragine sconfinata e profonda nel bel mezzo del suo piccolo cuore. Da allora altri specchi erano esplosi. Schegge di dolore, di rabbia, come quegli sguardi atoni e indifferenti di chi è capace di uccidere usando solo le parole ed è convinto di non aver mai commesso alcun crimine. Non aveva mai potuto scordarli, perché gli si erano piantati dritti nelle ossa fino al più profondo dei suoi pensieri, sconvolgendola. Ogni giorno che passava, quelle schegge entravano ancor più in profondità, il dolore non si fermava e l’emorragia interna peggiorava sempre di più. Chiese aiuto, sapeva di doverlo fare, ma nessuno riuscì a comprenderla, e venne tradita. Un’altra raffica violenta di schegge esplose in un boato assordante; quella bimba dentro di lei cadde in ginocchio coprendosi la ferita con le piccole mani candide e nel frattempo altre schegge veloci e scintillanti volarono sibilando sulla sua testa, mentre si chiedeva singhiozzando quale reato avesse mai potuto commettere. La sua innocenza moriva pian piano. La bambina dentro di lei sanguinava, ormai morente, e la ragazza che era diventata si chiudeva nel silenzio e nell’indifferenza. C’era chi la disprezzava per il suo presunto orgoglio, e ancora una volta senza pietà sguardi e sorrisi gelidi e taglienti sibilavano intorno a lei, colpendola in pieno petto. – Basta! – mormorava quella bimba innocente dentro di lei – Per pietà, basta! – ma nessuno poteva vederla, nessuno voleva farlo. Rabbia. Il suo cuore era diventato di pietra ed ora cominciava a sgretolarsi. Parlava poco, sorrideva come se la vita non avesse più alcun senso e nessuno si accorgeva di nulla. Solo Dio sapeva, solo lui e quella sua giovane e forte creatura potevano vedere quella bambina dentro di lei che chiedeva aiuto, che non riusciva ormai neanche più a respirare, mentre quelle schegge continuavano a volare incessanti su quel corpicino ormai esausto. Adesso era la sua calma a scheggiarsi, la sua immensa e innocente fragilità. E dopo tutto quel dolore, alla fine anche l’ultimo dei suoi sogni, il più bello e il più vero, cadde con un rombo assordante al suolo. Faceva ancora rumore il crollo di quel magnifico castello di cristallo, l’unico appiglio al quale si era aggrappata per sfuggire a quell’incolmabile vuoto in mezzo al suo cuore. Ricordò il suo scintillio al sole d’estate, sul mare calmo di un cuore immacolato. Poi in un lungo e terribile attimo lo rivide sfracellarsi sopra quei riccioli biondi, risentì il dolore ed il terrore più cupo, gli ultimi singhiozzi prima di smettere di credere nei sogni. Era tutto scritto su quelle pagine ingiallite, messe a riposare in un cassetto, e quando lei aveva cercato di regalarle al mondo, in un attimo il buio di quel vuoto l’aveva avvolta, l’aria si era riempita di una miriade di piccole schegge scintillanti e sibilanti, e lei non ce l’aveva più fatta. Non c’era stato abbraccio né carezza o parola gentile che potesse guarirla, perché il buio era troppo fitto e lei aveva paura.
Tornò con gli occhi al presente, lavò con rabbia il sangue dal dito e in un impeto d’ira amara gettò violentemente a terra ciò che restava del bicchiere, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime calde, che nessuno avrebbe mai visto, perché nessuno mai avrebbe voluto vederle. Il bicchiere si frantumò in mille pezzi, che scintillarono nel sole di mezzogiorno, spargendosi sul pavimento in ceramica del colore del mare. Si guardò intorno cercando di controllare il respiro, solo per rendersi conto che nessuno l’aveva vista. A volte si sentiva così sola, nonostante fosse sempre circondata da amici e persone che le dimostravano il loro affetto. Ma non era facile vederle, con tutto quel dolore, con quella rabbia in corpo. Non era facile vivere con un vuoto incolmabile in pieno petto in mezzo al quale una bambina dai bei riccioli biondi giaceva ferita a morte dalle mille schegge di cattiveria, lanciatele dalle persone di cui si era voluta fidare. Non era facile e a nessuno piaceva consolare un cuore di pietra, anche se c’era chi amava continuare a trafiggerlo. Aveva scoperto di soffrire di depressione ma adesso, a distanza di qualche mese, stava cominciando a riprendere coscienza di sé. Aveva avuto la fortuna di nascere in una famiglia stupenda, che aveva reso ogni attimo della sua vita meraviglioso. Ma perché non dimenticare, allora? Solo ora, dopo quel lungo percorso interiore che si era costretta a fare, aveva iniziato a capire, e si era resa conto che … non sarebbe più stata la stessa, mai più. Amarezza, paura e oppressione erano i sentimenti che si alternavano come un’orribile altalena dentro di lei ed era come se dovesse imparare di nuovo a vivere. Ma lei ce l’avrebbe fatta, perché era forte. Fissò atona quei vetri per qualche minuto, finché le balenò in testa un’idea. Lentamente si chinò e mentre il dito continuava a sanguinare, prese con la stessa mano una manciata di frammenti e li osservò seguendo un pensiero. Scintillanti nella sua mano, letali e gelidi, trasparenti proprio come lei avrebbe voluto non essere. Socchiuse il pugno, sempre di più, ma proprio quando stava per stringerlo ancora più forte, lo schermo del suo cellulare s’illuminò con un nuovo messaggio da parte di una delle poche amiche fidate di cui si era circondata per non morire,
– Piccola, come stai? Allora proviamo a ricomporle, tutte quelle schegge?
Improvvisamente, la ragione accorse a salvarla, di nuovo.
Si pentì di averci provato e dopo aver gettato inorridita le schegge nel cassonetto, con la testa tra le mani iniziò a piangere. E quella bimba dai biondi riccioli riaprì finalmente gli occhi.
- Non ho il coraggio! - pensò lei.
La bimba sorrise

- Si che ce l’hai … sono proprio qui! -

semifinale - Princesse, Claudia Aprea


Princesse
Claudia Aprea

Alla mia carissima aspirante dottoressa Simona;
alla mia compagnia teatrale, per la fiducia e la gentilezza dimostratemi;
e, come sempre, a voi splendidi lettori…


“Ma l’amore, per me, non è nient’altro che un materasso d’aghi su
cui dare da bere a queste femmine crudeli.”
(Charles Baudelaire)

Oh deliziosa creatura demoniaca, ti avevo spiato amorevolmente quando con meticolosa malizia imbellettavi il volto, agghindandoti per l’ennesimo spettacolo. I tuoi occhi erano sormontati da fitte pennellate di ombretto, le gote purpuree erano ombreggiate dalle ciglia elegantemente curvate come petali. Tu proiettavi la tua immagine allo specchio, che, avido della tua bellezza sfacciata, aveva intrappolato la tua figura: gli occhi sembravano fornaci ardenti, il volto illuminato da un’ostentata vanità. Io, osservandoti cautamente, ammiravo i tuoi capelli inanellati e vaporosi, che placidamente ti accarezzavano la schiena; adoravo i tuoi occhi vanesi e scuri, così dannatamente ipnotici, che mi avevano guardato con desiderio struggente, come se avessero voluto trascinarmi verso il baratro infernale.
E così, soggiogato dalla tua bellezza dannata, mi perdevo tra gli abissi d’ombra e i fasci di luce.

Anche quella sera cantasti, Princesse.
La tua voce era flautata, il tuo canto sembrava conformarsi all’armoniosità dei tuoi lineamenti, si espandeva all’interno del locale e raggiungeva i nostri cuori sopiti, riscaldandoli dal gelo dell’inverno.
La tua voce mi aveva ammaliato sin dal nostro primo, interminabile gioco di sguardi.
Eri stata la prima persona con la quale avevo instaurato un legame (sempre se il nostro poteva definirsi legame) da quando soggiornavo a Parigi. Animato dalla speranza di ritrovare l’ispirazione perduta, avevo abbandonato il mio Paese per trasferirmi nella capitale francese, affascinato dall’allegra aria bohémienne che imperversava; ma la vivacità fasulla ed artefatta mi aveva profondamente deluso.
Mentre sorseggiavo il cognac, osservavo il tuo abito rosso attraverso il vetro spesso del bicchiere: la profonda scollatura a “V” metteva in risalto il tuo seno piccolo e sodo; le balze della gonna sembravano farfalle che viravano l’aria, ondeggiando ad ogni movimento. Avevi raccolto i ricci in uno chignon impreziosito di perline e lustrini, che scintillavano come stelline al pallore della luce aranciata dei lampadari.
Ad un tratto -come spesso accadeva- mostrasti il tuo vero, terribile aspetto.
Quell’aspetto che mi aveva sedotto e terrificato al tempo stesso…
Tutto apparve sfocato e privo di contorni, come nubi amorfe: il tuo canto esplodeva in una risata satanica, lunghe corna spuntavano tra i tuoi capelli e un’orripilante lingua biforcuta fuoriusciva dalle tue labbra sanguigne; spirali di fuoco attorniavano la tua persona, carezzandoti come fa una mamma col proprio bambino.
Sebbene il tuo aspetto fosse sensualmente demoniaco, io ti osservavo come se tu fossi stata una benevola apparizione divina: non riuscivo a puntare altrove lo sguardo, totalmente assorbito dai tuoi occhi e incantato dalle voce di miele, come se avessi voluto risucchiarmi l’anima.
Ero come una barca alla deriva: sballottata dalle onde ma che tentava disperatamente di non affondare, di rimanere a galla malgrado le intemperie.
Le ultime parole della canzone si spensero, un applauso rimbombò tra le mura del locale.
Tu –inebriata dalla tua gloria malvagia- sorridesti leziosa, scoprendo i denti nivei che contrastavano col rosso fuoco delle labbra.
Scombussolato, scossi il capo, posando gli occhi sul parquet del pavimento, non ancora del tutto libero del maleficio.
Il tuo sguardo vagava tra la folla, tra quel pubblico che pronunciava il tuo nome, acclamandoti, paragonando la tua bellezza esotica ad una divinità greca. Incondizionatamente incontrasti i miei spenti occhi verdi, e sorridesti. Non era il tuo solito sorrisetto civettuolo, che regalavi a qualsiasi uomo ti guardasse. Ma era un sorriso complice e sincero.
Tu abbandonasti la folla in tumulto, allontanandoti verso le camere dove svolgevi il tuo vero lavoro: vendevi il corpo per soldi.
Io ti seguii, come di consuetudine, pronto a scivolare nel pozzo senza fine dei tuoi occhi.

Oh angelo della seduzione,
bruciamo all’inferno!

Rimasi a fissarti per un attimo, non appena richiusi la porta. Eri bellissima, la finestra incorniciava il tuo capo e i raggi lunari baciavano i tuoi capelli, donandoti un’aria oscura e spettrale, ma soprattutto attraente. Tu eri una creatura irraggiungibile e sovrumana ma al tempo stesso tangibile e vera; un essere ignoto. E tutto ciò che era oscuro e celato mi aveva da sempre attratto.
“Cosa succede? Non ti piaccio?” domandasti, afferrando un lembo dell’abito e piroettando, come per mettere in mostra la tua grazia. Così facendo, mi allontanasti dai pensieri che si erano affollati nella mia mente.
Avvolsi una mano intorno al tuo esile polso, spingendoti verso me, e prontamente aggredii le tue labbra. Quelle bellissime labbra dalle quali era scivolato il canto armonioso.
Ma il desiderio di possederti era irrefrenabile, quel banale scambio di baci doveva terminare. Impaziente, ti scagliai sul letto, dove il raso rosso inguainava i cuscini e il materasso, e sembrava estendersi fino alle pareti color carminio. Tutto trasudava sangue e passione.
Ed io mi stesi accanto a te, desideroso di ammirarti inerme e senza protezioni…

“Jakob” borbottasti spazientita, mentre scioglievo la crocchia ed una cascata di ricci indomabili pioveva innanzi al tuo volto.
“Jakob” sussurrasti mentre assecondavi ogni mio gesto, lasciandoti trasportare dalla passione che, impetuosa, si diramava in te.
“Jakob” mugolasti mentre assaporavo ogni centimetro della tua pelle.
“Jakob” ridesti scherzosamente, mentre il mio indice affondava nell’incavo delle vertebre, stuzzicandole, una ad una. Nulla vi era di più bello della tua schiena nuda e liscia, levigata come una pietra; adoravo percepire i brividi che l’attraversavano, derivati dall’eccitazione che ti procuravo.
“Jakob” gemesti, mia cara Princesse, mentre danzavo con passione su di te, raggiungendo l’apice del piacere.

Ma il destino (quell’insopportabile burlone che mi aveva concesso di incontrarti) si era stancato dei nostri amplessi feroci, decidendo di spezzare quel filo, già teso, che ci univa. Anche la sorte era stata stregata dal tuo canto, dalla tua bellezza e dalla tua civetteria: desiderava ghermirti la vita ed averti per sé.
E accadde, il destino riuscì nel suo intento.
Visto il lavoro precario che svolgevi, avevi contratto un male incurabile, che deturpò la tua bellezza florida, chiazzandoti la pelle con segni che sarebbero rimasti indelebili sul tuo corpo e nella mia mente. E, quando esalasti l’ultimo respiro, mi donasti uno di quei sorrisi che solo io avevo il privilegio di osservare.
Un liquido sguardo di velluto e la luce che brillava nei tuoi occhi si spense per sempre, mia bella Princesse. E mi trafiggesti come soltanto coltelli affilati avrebbero potuto fare.

Malgrado fossi morta, mi recavo tutte le sere in quel locale, dove sorrisi untuosi e tetri come maschere greche, risa sguaiate e fragorose –perlopiù causate dall’ebbrezza- e il grigiore nebbioso del tabacco si mescolavano in un infernale caleidoscopio di gioiosa ipocrisia.
Ed io, inondato dalla perdizione, ti vedevo ancora sorridere e cantare sul palcoscenico della vita, aspettando che ti portassi via dallo squallore della tua esistenza.
Sarei per sempre rimasto invischiato alla tua tela. Per sempre.

semifinale - Sognando una nuova vita, Annarita Tranfici

Sognando una nuova vita

Annarita Tranfici




Che bella la luna stasera... sembra che brilli ancor più luminosa per farsi guardare. Una splendida luna piena, dalla pelle lattea e fulgida. È come se con i suoi raggi voglia disegnare un percorso e indicarci la strada.
Che fortuna abbiamo avuto ad imbarcarci con questo tempo. Il mare è calmo, non tira un filo di vento. Sono certo che non avremo alcuna difficoltà a raggiungere la costa. Solo un altro giorno e finalmente saremo in Italia.
Chissà com'è questa Italia di cui parlano tutti... Poco importa, non ci resteremo troppo. Giusto il tempo necessario per ottenere alcuni documenti e ci metteremo in viaggio per la Germania. È quella la meta del nostro lungo viaggio ed è là che mio fratello nascerà e crescerà. Ho notato come gli occhi della mamma si illuminano d'improvviso quando me ne parla. Dopo la morte di papà e di Selam sembrava non riuscire più a sorridere, sembrava aver rinunciato ad ogni piccola speranza. Quando poi si è resa conto di aspettare un altro bambino, non ha esitato neppure un istante ad accettare la proposta di quel vecchio amico di papà. Si era offerto di procurarci un posto su una barca che di lì a poco sarebbe partita per l'Europa, portandoci via da un paese povero e in guerra. Come avremmo potuto lasciarci sfuggire quell'occasione?
"Abhram, non possiamo più restare qui." mi aveva detto. "Stanotte lasceremo Bengasi, Yemane ci darà una mano". Così, senza fare troppe domande, due sere fa mi sono sistemato sul barcone, seguendo le indicazioni degli uomini che ci avrebbero condotto nel nuovo continente. Notai subito che la barca era piuttosto malridotta, un po' vecchia e molto sporca ma ero fiducioso che ci avrebbe portato a destinazione senza intoppi. In fondo, non eravamo di certo i primi a compiere quel viaggio.
La mamma è seduta non troppo distante da me. Se ne sta in silenzio, infreddolita e stanca. Si guarda intorno spaventata, sfuggendo il mio sguardo speranzoso, il quale non avrebbe altro intento che infonderle un po' di coraggio. Sono io a dovermi occupare di lei adesso, e nonostante abbia solo quindici anni, ho promesso di proteggerla, a ogni costo.
Ormai siamo in viaggio da quasi tre giorni, e nessuno di noi tocca cibo né acqua dalla partenza. La tensione è palpabile, gli animi iniziano a surriscaldarsi. Un gruppetto di giovani irrequieti e piuttosto nervosi vuole portare scompiglio: si insultano rabbiosi, inveendo l'uno contro l'altro, manifestando tutta la propria insofferenza a suon di pugni e strattoni. A tale vista uno dei due scafisti, in un eccesso d'ira fulmineo, si avventa contro il giovane che ha dato inizio alla rissa e lo separa dall'uomo che aveva aggredito. Gli ordina di restare seduto, che se ci riprova a far confusione, lo getta in mare e lo lascia annegare. Pochi minuti e, incurante di quegli avvertimenti, lo stesso giovane riprende lo scontro fisico iniziato poco prima, scagliandosi contro il rivale carico d'odio e ferocia. Questa volta il conducente del barcone sembra non voler sprecare fiato; afferra una bottiglia di vetro vuota e la scaglia violentemente contro il cranio del giovane. Lo osservo da molto vicino: stordito dal colpo, pare cedere al peso del suo corpo. Istintivamente, mi alzo per afferrarlo ed evitare che cada. Nel mio slancio improvviso, non presto attenzione alle schegge di vetro sparse sul legno consumato del barcone. Le calpesto, scalzo, e le sento penetrarmi tutte insieme nella carne nuda del piede. Non riesco neppure ad afferrare il braccio del mio compagno di viaggio; il dolore mi blocca prima. Vedo mia madre precipitarsi verso di me, intenzionata a lenire quelle ferite fresche. Afferra il piede e, ad una ad una, tira fuori dalla carne le schegge trasparenti. Con fermezza e agilità, strappa un lembo del velo che porta avvolto attorno al capo; so che lo userà per fasciarmi l'arto dopo aver estratto anche il più piccolo di quei frammenti vitrei.
In quel momento una serie di pensieri indistinti inizia ad affollare la mia mente; lacrime calde scendono, segnandomi il volto. Non sono in grado di ricacciarle e interrompere quello sfogo. Sento cadere ogni difesa, getto via la maschera che, per amore di mia madre e rispetto del ricordo di mio padre, indosso dal giorno della sua morte. Riconosco il sentimento che mi opprime: è paura. Paura del futuro ignoto che mi attende, del destino che mi è stato riservato, paura di perdere mia madre e di non poterla aiutare a crescere un figlio che nascerà tra pochi mesi. Ho mentito, non mi sento affatto tranquillo, al punto che mi tremano le mani per l'agitazione.
Ho visto negli occhi delle donne del mio paese un dolore inconsolabile, donne a cui non è rimasto neppure un corpo su cui piangere. Non voglio pensare che anche a me spetti quella sorte. Non riesco più a sostenere questa immensa sofferenza e un po' me ne vergogno. Papà, Selam, la mia amata Barentù, dove sono nato e cresciuto: una perdita dietro l'altra, una spirale di dolore per cui vorrei un colpevole da punire. Ogni scheggia, ogni picco di dolore fisico ha fatto riaffiorare le pene di un'anima che avevo cessato di ascoltare. Le punte di quel vetro hanno causato gravi ferite, profonde quanto le cicatrici che porto sul cuore, mai sanate del tutto.
Ora vorrei solo dimenticare, ricominciare da capo, via dai ricordi che mi disturbano il sonno. Chissà, magari la nuova vita in Germania mi aiuterà.
È quasi l'alba, i raggi lunari stanno facendo spazio ad un'aurora candida e delicata, il cielo è terso. Tuttavia nelle ultime ore il vento si è fatto piuttosto insistente, rendendo il mare mosso e minaccioso. Il barcone inizia ad ondeggiare troppo. Provo ad alzarmi, nonostante il dolore. È questione di secondi, iniziamo ad imbarcare acqua. Un'onda più alta delle altre riesce quasi a far capovolgere la barca, molti finiscono in mare. Mi volto alla ricerca mia madre, ma il mio sguardo non riesce a scorgerla. All'improvviso la vedo: è finita in acqua e si dimena per restare a galla.
Devo fare qualcosa, devo salvarla! Non faccio in tempo ad alzarmi che un'onda ancora più alta la travolge, non la vedo più.
Dove sei, mamma? Rispondimi! Mamma, mamma!

semifinale - Eravamo solo dei Mulas, Alessandra Bertini

Eravamo solo dei mulas
                                     Alessandra Bertini


Avevo undici anni quando sono entrato nelle schegge. Cercavano giovani veloci e furbi per consegne a domicilio, sull’annuncio c’era scritto compenso eccezionale.
Papà era morto da circa un anno in un incidente stradale, non si è mai saputo bene come fosse andata veramente, la versione ufficiale fu un colpo di sonno, ma su quel tratto di strada per Tijuana, quel giorno ci fu un gran casino, ed io non mi tolgo dalla testa che a sbattere contro quell’albero ce lo abbiano mandato.
Mamma non lavorava e senza lo stipendio di papà ogni giorno rischiavamo il digiuno, così non c’ho pensato due volte a calarmi nello stomaco una decina di ovuli gonfi di cocaina. Questa fu la mia prima consegna a domicilio ed entrare nelle schegge voleva dire, diventare un corriere della droga.
Il sistema era collaudato da molto prima del mio arrivo, ormai la nuova frontiera del narcotraffico eravamo noi giovani ragazzini affamati e quindi disposti a tutto, utilissimi ai signori della droga per essere sguinzagliati in quantità abbondante verso la frontiera con gli Stati Uniti. Più eravamo giovani, svelti e numerosi, meno probabilità c’erano che ci beccassero alla dogana, e in ogni caso, anche ci avessero scoperti, meglio noi che loro.
Ad entrare ci ho messo il tempo di un sì fatto con un cenno della testa ad un tizio dall’aspetto poco raccomandabile, appoggiato ad un lampione. Senza aprire bocca mi fece segno di salire su un'auto scura parcheggiata lì vicino, dentro c’era il mio capo: El Chapo

«Allora, ragazzo, come ti chiami?»
«Héctor» risposi
«Conosci le schegge?»
«No»
«Da adesso sei una di loro, uno dei miei uomini di fiducia. Posso fidarmi di te?»
«…»
«Essere una scheggia vuol dire coraggio, scaltrezza, velocità di pensiero e azione. Non sono abilità che tutti hanno, ma solo chi le possiede, dammi retta, conta qualcosa. Pensi di avercele?»
«…»
«Ce le hai sì o no?»

Dissi di sì non per convinzione, ma per paura. Mi dette una pacca sulla spalla e un sacchettino di ovetti bianchi. Dovevo portarli a San Diego, dentro lo stomaco.
Presi il sacchetto in mano e rimasi per qualche istante immobile a fissarlo, giusto il tempo perché El Chapo si accorgesse della mia titubanza.

«Tieni, bevi questo prima di mandarle giù, anestetizza la gola ed evita di farti vomitare. È roba delicata, sbagliare non è consentito. Per tutto il viaggio ricorda di non bere o mangiare, vorrai mica che ti esplodano tutte e dieci in pancia?»

Finì con una fragorosa risata e una spinta, più o meno amichevole, per mandarmi fuori dall’auto. Ero anch’io una scheggia, adesso.

Per quanto vivere nella mia città e ancora di più la morte di un padre, ti facciano crescere in fretta, la mia giovinezza terminò esattamente nel momento in cui riuscii a mandar giù l’ultimo ovulo e mi misi in viaggio. Il liquido che mi aveva dato El Chapo, non solo fu un utile lubrificante per la gola ma ancora di più per la mente. Con andamento esponenzialmente inverso salì la sbornia e scese la paura, di essere preso, ma ancora di più, di rimanerci secco.
Seguii alla lettera le indicazioni che mi avevano dato e andò tutto meravigliosamente bene: i controlli all’aeroporto, alla dogana, l’incontro con l’altro corriere e pure l’espulsione. Così ho cominciato a sentirmi un gran figo, peggio ancora un figo con i soldi in tasca. Si arriva a fare i corrieri della droga per fame e si finisce per provarci gusto: nello sfidare la legge, quella dello stato e quella divina, oltre al fatto, ben più risaputo, che quando tocchi la droga difficilmente puoi smettere. Per arrivare a sentirsi invincibili il passo è breve, finché qualcosa non va storto e ti rendi conto che non ti chiamano scheggia per la velocità e la scaltrezza ma per l’insignificanza e la precarietà di chi, come noi, al futuro spesso non ci arriva e conta quanto un misero frammento di legno.
Ho cominciato a capirlo quando ho visto morirmi accanto Alfredo. Eravamo in missione insieme, stessa tratta verso San Diego. Poco dopo l’uscita dall’aeroporto ha iniziato a dire che gli faceva male lo stomaco, mi ha guardato con il terrore negli occhi, conosceva perfettamente cosa stava succedendo, qualche ovulo, aggredito dai succhi gastrici, doveva essersi rotto. Si è accasciato a terra, si è dimenato per un po’ e poi è svenuto. Sapevo benissimo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto ma sono scappato lo stesso per paura di essere preso. Ho proseguito la mia missione, consegnato la merce e sono tornato a casa con la paga, come se niente fosse successo, come se Alfredo non fosse morto.
Poi la notte ho sognato quegli occhi colmi di paura che mi fissavano. Non ricordo se è successo anche nella realtà, ma di sicuro in sogno l’ho sentito piangere e chiamare la mamma. Mi tendeva la mano come a chiedermi aiuto e più ci provava, più io mi allontanavo, fino a sparire dalla scena del sogno, dove restava Alfredo, solo, gli occhi aperti ma senza vita.
Oltre a me nessuno della banda ha mai perso tempo nel ricordarlo, nel dispiacersi della sua fine, tutt’al più ho sentito qualcuno lamentarsi del brutto casino in cui la perdita, non della sua vita, ma della partita di droga, ci aveva cacciati. Io invece ho continuato a vedere Alfredo in sogno per un numero di notti di cui non riesco a tenere il conto. Fino a quando, alla dogana, mi hanno arrestato.
Una delle prime cose che ti insegnano quando entri nelle schegge, è quella di non parlare, non fare nomi, solo tacere perché tanto verranno loro a salvarti dalla prigione, e invece se fai la spia la paghi gara. Così la tua bocca resta serrata di fronte alle domande della polizia, anche di fronte ai ceffoni e ai modi poco garbati che piacciono tanto agli uomini in divisa. Aspetti che la banda venga ad aiutarti, ma non ci pensano proprio, anzi si sono già dimenticati di te e ti hanno sostituito con un altro ragazzino. Una nuova giovane bestia da soma, perché in fondo non siamo altro che mulas carichi di immondizia, schiavi di un sistema che ci prende per fame, bidoni umani di spazzatura. Altro che schegge.

semifinale - Un'ultima volta ancora, Valerio Zavaglia

Un'ultima volta ancora
Valerio Zavaglia


Occhi marroni, capelli castani raccolti in una coda, labbra livide e screpolate. Il trucco nero colava lungo le guance, fin sopra gli zigomi.

Rabbia, dolore, dolore, rabbia. Pena.

Il pugno colpì forte, talmente forte da rompere il naso alla donna che aveva di fronte. L’unica cosa che spaccò fu il vetro davanti a lei, che cadde in tanti piccoli pezzi sulle mattonelle azzurre del pavimento. Il dolore le attraversò il braccio, partendo dalle nocche e arrivando fino alla spalla, come una potente scossa elettrica. La donna la osservava dai pochi pezzi di vetro ancora attaccati alla struttura in legno. Pezzi di vetro affilati, simili a lunghi coltelli che avrebbe volentieri afferrato per tagliarle la gola e vedere spegnersi a poco a poco quello sguardo pieno di disperazione, di pena.

Cadde a terra, bambola di pezza in mezzo ai pezzi di vetro. Tanti piccoli pezzi di vetro come lame lucenti. Schegge. Lo specchio in frantumi, come la sua stessa vita.

Dalla tasca del giaccone in pelle prese tutti i suoi averi. Una bustina, una siringa, un cucchiaio, del succo di limone e un accendino.

Gran bel misero bottino pensò. Un sorriso le increspò le labbra screpolate. Iniziò ad armeggiare, sentiva le dita gonfie e addormentate. Sciolse l’eroina nel cucchiaio e la tirò con la siringa fino a colmarla.

Una volta iniettata bastavano solo dieci secondi.

Si tolse il giaccone e lo lasciò a terra, insieme al resto dei suoi averi tranne la siringa, la siringa no, quella rimase nella sua mano tremante. Arrotolò la maglietta fin sopra il gomito, scoprendo un bianco braccio pieno di piccoli puntini rossi.

Una volta iniettata bastavano solo dieci secondi.

Infilò l’ago nella vena e – pian piano – si iniettò tutto il contenuto della siringa.

Uno…

Fissò le schegge di vetro davanti a lei e spalancò gli occhi.

Due…

Su quei pezzi di vetro correvano delle immagini.

Tre…

Una bambina con lunghi capelli castani e una manciata di efelidi correva su di un prato.

Quattro…

La stessa bambina davanti due lapidi.

Cinque…

Una ragazza sdraiata in un letto, il corpo avvinghiato a quello di un uomo. Sul comodino un posacenere stracolmo e un paio di siringhe.

Sei…

La ragazza è in un altro letto, un neonato tra le sue braccia.

Sette…

Il bambino piange, la ragazza è stesa sul letto. Dorme. Sul comodino una siringa vuota. Il bambino piange poi smette, risucchia l’aria una, due, tre volte. Gli occhi aperti a fissare il soffitto.

Otto…

La ragazza è seduta per terra sul marciapiede lercio. La gente che passa scuote la testa, alcuni gli lanciano monete di piccolo taglio.

Nove…

La siringa vuota ancora infilata nella vena. Vomito secco sulla maglietta. Gli occhi chiusi.

Dieci…

L’effetto dell’eroina viene accolto quasi con sollievo. Poggia la testa al muro e sorride. Tutto quello che aveva visto sui pezzi di vetro, tutte quelle immagini altro non erano che il film della sua vita. La bambina felice a cui vengono strappati i genitori, l’amore verso l’uomo sbagliato, il primo incontro con l’ero, il suo piccolo e dolce bambino morto perché lei dormiva strafatta a pochi centimetri da lui, il periodo passato in strada.

L’eroina corre veloce nelle sue vene, le raggiunge il cuore.

Ha ancora qualche istante per sé, per pensare a quella merda di vita. Tutti i dolori, le sofferenze passate. Ma ancora non riesce a dare la colpa a quella vita tanto odiata. La colpa è sua, sua solamente. Persone sbagliate e scelte sbagliate che l’hanno portata in quell’autogrill dimenticato da dio a spararsi altra merda in vena.

Per l’ultima volta.

Il suo cervello si dimentica di dare ordini al respiro, i polmoni rallentano i loro movimenti, l’ossigeno non arriva più agli organi.

Era ora pensò.

Cerca di succhiare aria, la stessa azione che aveva compiuto suo figlio prima di lei. Se ci riuscisse sorriderebbe. C’est la vie.

Il sistema cardio-vascolare collassa in mancanza d’ossigeno.

Sente la vita che l’abbandona.

Volge un ultimo sguardo a quelle schegge di vetro ai suoi piedi. Il suo bambino allunga le mani verso di lei.

Sto arrivando piccolo.

semifinale - Il pianeta della dea Myka, Valerio Vozza

Il pianeta della dea Myka
Valerio Vozza

La dea Myka, ancora fanciulla, era solita addobbare il suo piccolo albero di Natale con dei pianeti. La Terra era tra tutte le sfere quella che preferiva: colorata per tre quarti con i colori azzurri dell'acqua e il resto di quelli della roccia. Per errore il pianeta era caduto e si era rotto in mille schegge appuntite. I genitori della bambina la vedevano triste e decisero di accompagnarla fino alla Via Lattea, in un sistema stellare in formazione, dove la Terra si potesse di nuovo ricostruire.

Ma ciò non è riuscito alla perfezione, la nuova Terra ha le ammaccature della precedente, infatti, è ancora tappezzata da spigolose montagne e l'oceano si prolunga verso le terre emerse per mezzo di schegge d'acqua che gli abitanti, i terrestri, chiamano fiumi. Anche loro ricordano la forma delle schegge: grandi poco meno di 2 metri si sviluppano prevalentemente lungo la verticale e assomigliano a schegge di acqua e carbonio. Le loro case misurano la grandezza dei loro cuori: schegge di centinaia di tipi diversi di materiali si innalzano dal terreno con la folle ambizione di grattare il cielo per farsi notare dalla dea Myka ed essere così riammessi sull'albero di Natale. I loro interessi, invece, misurano la profondità del loro Universo, rispetto a quello della loro dea: gli abitanti della Terra amano dividersi in continenti, stati, regioni, provincie, comuni, quartieri, condomini, scale, interni e stanze. Ognuno è diviso dagli altri, come se abitasse in schegge infinitesime separate. Essi sono pronti a tutto per rubare un pezzo della scheggia altrui in spietate guerre, ma sono altrettanto incapaci di condividere assieme le risorse del loro pianeta divisi come sono.

Anche il cuore e la mente dei terresti sono separate: se la prima è già in aria, che quasi si appresta ad atterrare paga del suo volo, la seconda è ancora in terra, mai soddisfatta, a spiccare voli in continuazione. Così l'orbita di un abitante della Terra non assomiglia per niente al semplice circolo che compie il pianeta per interazione gravitazionale: la prima è determinata da complesse forze che portano i terrestri verso l'essere che è stato al loro fianco durante la spaccatura del pianeta, per completarsi a vicenda e poter così far spiccare il volo alla mente di entrambi affinché possano prendere i loro cuori e atterrare felicemente oltre ogni difficoltà.

Così ho visto un soldato keniota cercare per tutta la vita di viaggiare nel tempo per incontrare una sacerdotessa Inca e una pittrice americana cercare addirittura la compagnia un imperatore romano…

L'anima dei terrestri è capace di comprendere il fascino dell'infinito mondo degli dei, ma questi ne sono esclusi, dato che vivono nel pianeta dei frammenti: scienziati progettano pianeti cavi incapaci di essere realizzati per mancanza di materia, scrittori immaginano mondi distanti decine di parsec, incapaci di essere raggiunti per mancanza di tempo nelle loro vite, artisti immaginano geometrie incapaci di esistere per mancanza di spazio e di dimensioni presenti nella loro realtà. Tutti incapaci di vivere nel mondo infinito di Myka.

L'insieme delle possibilità per un terrestre di incontrarsi con i loro simili ha la stessa cardinalità degli elementi di un intorno aperto dei numeri reali e come quest'ultimo è limitato. Ad esempio, ho osservato che il settore dei matematici e quello dei guerrieri sono mischiati con gli altri. Una sera nel Queenland meridionale, mentre ero insieme a un gruppo di aborigeni australiani, ho espresso questa preghiera agli dei: "Forse Archimede non potrà incontrare Newton, né Giulio Cesare potrà aiutare Napoleone a Wateloo, ma almeno il proprio compagno, quello che era a lui più vicino, quello che cercano con più insistenza, fate in modo che si incontrino.” Allora, in una taverna di Parigi ai tempi del Re Sole, cinque secoli prima, una prostituta fiamminga fu eletta per potermi parlare dalla dea Myka oramai adolescente:

"Lo spazio delle fasi e la bontà degli dei sono più ampie dell'intero universo. Ho ascoltato la tua richiesta e insieme alle altre divinità decreto, dall'inizio dei tempi e per sempre, che gli abitanti della Terra saranno separati per coppie nelle loro schegge, così da avere diritto a un compagno. Ma l'istante che nasceranno sarà diverso dall'istante del loro incontro, così, quando gli abitanti della Terra scopriranno che il destino, ovvero io, ha riservato nelle loro vite una scheggia del mio mondo me ne saranno grati e non lo sprecheranno come tutto il resto della loro esistenza.”

Non ho osservato nessun cambiamento nella storia dei terrestri, tranne che coppie di abitanti hanno iniziato a toccarsi le labbra tra i punti di contatto delle schegge. Forse è solo un timido tentativo di abbracciarsi per provare a fondere la propria scheggia con quella dell’altro. E forse, chi lo sa, se non succede questo nell'intimità.

Mi sono poi domandato: "Perché non ho ancora incontrato chi mi spettava?" Ero su una spiaggia tra l'equatore e il tropico del Capricorno, all’inizio del terzo millennio e ho rincontrato questa volta di persona la dea Myka, divenuta una giovane donna.

"Tu mi hai chiesto di portare un po' di divinità su questo pianeta e io ora ti chiedo di portare un po' della vita della Terra in me, che amo questo pianeta così tanto". Così lei mi ha baciato ed è divenuta mortale.

Dei tanti pianeti uniformi dell'Universo questo è il solo abitato. Due saranno i possibili destini dei suoi abitanti. Il primo è che questi, costruendo torri sempre più alte e non accorgendosi che la loro dea e già sul pianeta, si ritroveranno, un giorno, schiacciati dalle macerie di questi edifici, crollati al suolo. Il secondo è che, ad ascoltare i loro desideri, essi scopriranno che ogni scheggia, a furia di rubare frammenti altrui non è diversa dalla propria e che in ognuna di esse possono trovare tutto ciò di cui hanno bisogno, come in un intorno aperto di un numero reale.

semifinale - Walter, Francesco Piscitelli

WALTER
Francesco Piscitelli


La luce esterna filtrava attraverso il vetro verde smerigliato della porta, illuminando una mensola sulla quale erano poggiati un distillatore in rame ormai ossidato e una lente d’ingrandimento scheggiata. Delle boccette trasparenti erano ordinate secondo il livello di riempimento. Tra polveri e liquidi si poteva notare un barattolo pieno di piccole pietre traslucide di diverso colore e dai bordi irregolari. La più grande non superava le dimensioni di una capocchia di spillo. Accanto la mensola, su due ganci di ferro erano appesi una giacca di tweed consumata all’altezza dei gomiti e un berretto da newsboy.

Un gatto tigrato era acciambellato con gli occhi chiusi sul bancone color mogano. Muoveva le orecchie per cogliere le voci provenienti dal retrobottega, dove dietro una pesante tenda di panno si udiva parlare.

“Professore, l’operazione farà male?” chiese un ragazzo steso su una poltrona odontoiatrica. Le dita nodose stropicciavano un fazzoletto sudicio.

“Nient’affatto, Walter. Sentirai solo qualche ronzio e una lieve vibrazione” rispose il professore. Parlava tenendo tra le mani uno strano marchingegno che dall’aspetto ricordava un cavatappi con delle zampe a ventosa. Una manovella era collegata a degli ingranaggi di ottone dalla funzione ignota.

“È sicuro che questo mi aiuterà con i miei ricordi?” chiese il ragazzo mentre osservava l’inusitato oggetto inarcando un sopracciglio. Si tamponò col fazzoletto una goccia di sudore che da una tempia gli stava scendendo lungo il viso.

“Al cento per cento. Ora chiudi gli occhi e fai ampi respiri spingendo in basso il diaframma. Quando ti sentirai pronto potrai iniziare a raccontare. In questo modo la scheggia sarà più visibile e potremo rimuoverla con facilità” disse con sicurezza. Gli occhi nelle orbite profonde e scavate avevano uno sguardo sereno.

Walter tirò su col naso e si apprestò a rilassarsi. Trascorse un buon quarto d’ora prima che il respiro da forzato e controllato si facesse più fluido e profondo. Nel frattempo il professore aveva sistemato il marchingegno sul padiglione auricolare del ragazzo e vi guardava all’interno attraverso una piccola lente.

“Immagina di essere su una locomotiva che va all’indietro nel tempo sempre più veloce fino a portarti al tuo ricordo. Dove ti trovi?”

“Sono nella fattoria di mio padre. Ho 8 anni”

“Cosa stai facendo?”

“Sto piangendo. Dobbiamo trasferirci, mio padre ha il tifo e non riusciamo più a gestirla”

“Cosa è successo dopo aver lasciato la fattoria?”

“Ho lavorato. Vendevo giornali per aiutare la mia famiglia e poter andare a scuola. Non avevo tempo per gli amici, perché quando non ero in classe ero in strada. Passavo lunghe ore da solo in un angolo del marciapiede”

“Come trascorrevi quei momenti?”

“Immaginavo. Non avevo libri o quaderni da disegno, così vivevo avventure che mi costruivo nella mente. All’inizio erano semplici fantasticherie, poi cominciai a inventare delle vere storie con dei personaggi di fantasia. Il mio preferito tra essi era un piccolo topo”

“Le rammenti ancora?”

“Sì, anche dopo dieci anni. Insieme alla solitudine è ciò che mi è rimasto di quel periodo”

“Hai mai pensato di trascriverle e farle vedere a qualcuno?”

“E perché mai avrei dovuto farlo?”

“Quel bambino che soffriva ha bisogno di esprimersi e lasciar uscire all’esterno le proprie emozioni. E potrà dare l’opportunità a chi non ha la stessa immaginazione di poter vivere le avventure che ha sempre desiderato”

“Non credo di esserne capace”

“Se l’hai immaginato sarai anche in grado di raccontarlo. E avrai dato un senso alle tue angosce”.

Il ragazzo tacque. Una lacrima gli spuntò da un angolo dell’occhio. Il marchingegno si era intanto bloccato.

“Apri gli occhi” disse il professore.

“Abbiamo finito?” esclamò il ragazzo, guardandosi intorno.

“Proprio così. Guarda: un bel blu cobalto” fiero di sé, il professore parlava roteando tra i polpastrelli un piccolo pezzo di vetro appena sganciato dalla punta del marchingegno. Il ragazzo osservava stupito mentre con una mano si tastava dietro l’orecchio.

“Ora che ne abbiamo eliminato la componente negativa, i tuoi ricordi non ti tormenteranno più. Come ti senti, Walter?”

“Come se la testa si fosse svuotata. Fa molto strano”

“Ti ci abituerai. Per i primi giorni, prenditi dei momenti in cui stare tranquillo respirando come abbiamo fatto. Questo eviterà il formarsi di un nuovo frammento nello spazio che abbiamo lasciato vuoto. Lascia stare, non mi devi nulla” bloccò, con un cenno di diniego, il ragazzo che rovistava nelle tasche dei logori pantaloni in cerca di monete.

“E poi il merito è del gatto – proseguì – È stato lui a suggerirmi questa tecnica”.

“Oh, ne sono certo” rispose ironico il ragazzo, con lo sguardo rivolto verso l’alto.

“È così. Ringrazia lui” il professore indicò l’animale, che aprì gli occhi in una sottile fessura come a osservare la scena.

“Vedo che è impossibile farle cambiare idea ed evitare che mi prenda in giro. Allora io la ringrazio signor gatto, le sarò sempre molto grato” disse con un teatrale inchino.

“Professore, rifletterò su ciò che mi ha detto: com’era? Se puoi sognarlo puoi anche farlo?”

“Proprio così, Walter”

“Mi chiami Walt!” gridò il ragazzo mentre abbandonava la bottega.

Rimasto solo, il professore tolse gli occhiali e sospirò.

“Chissà perché, Baron, hanno tutti la stessa reazione quando dico che l’idea è stata tua” disse rivolto al gatto, intento a leccarsi una zampa.

“Magari perché non hanno mai visto un gatto avere idee” replicò il felino.

“Quanto credi potrà durare prima che qualcuno si accorga che nella testa delle persone non ci sono delle schegge di vetro?”

“Fin quando le persone crederanno che li possa far star meglio. Gli esseri umani non si interrogano su cosa sia verità e cosa sia finzione, se questo può portar loro beneficio. Credo che voi la chiamiate fede. In fondo, tu non trovi affatto strano che io ti stia parlando”.

“Hai proprio ragione, vecchio mio. Come sempre”

“Ovvio. Sono un gatto, mi distinguo per l’acume”

“Ma non per la modestia” esclamò il professore, ridendo.

semifinale - Rimenbranze, Fausto Pirrello

RiMembranze
Fausto Pirrello


Accarezzo questo rigonfiamento sotto pelle come fosse la cosa più cara che ho.

Poco importa la scossa di dolore che provo allo sfiorare delle dita, ho sempre rifiutato di farmi rimuovere questo corpo estraneo sottocutaneo.

Il mio sistema immunitario aveva inizialmente cercato di rigettarlo, di cacciare quest’ospite indesiderato.

In seguito il mio corpo si è rassegnato, lo ha accettato anche se non del tutto.

Il liquido che circonda questa reliquia di un avvenimento passato è il modo che hanno le mie membra di dire “sei dentro di me, ma non sei parte di me”.

Ogni tanto, dopo un lungo periodo in cui magari riesco a non pensare a quel giorno, basta una fortuita leggera pressione sull’escrenza e il dolore riporta tutto alla mente.

Non importa quanto in fondo tu seppellisca un ricordo, fosse anche sotto pelle, basta che tu lo sfiori e sentirai nuovamente il dolore.

Nulla si crea, nulla si distrugge..tutto si ricorda.

Il tutto nei miei ricordi si svolge alla velocità della luce.

Curioso, dato che si parla del giorno in cui ci fu l’eclissi, e il fulcro era proprio l’assenza di luce.

“Venite a casa mia per vedere lo spettacolo” recitava il messaggio.

Io arrivai qualche minuto prima degli altri.

La porta era stata lasciata aperta per consentirci di entrare.

Faceva sempre così.

Curioso, dato che lui non lasciava mai entrare nessuno dentro di sé.

Lo trovai chino sul tavolo da lavoro.

Senza neanche salutarmi iniziò il suo monologo.

Ricordo ancora benissimo quasi tutte le sue parole, e quando ho qualche difficoltà di memoria sfioro l’escrescenza.

“A volte ho l’impressione che la mia vita sia volata, veloce come una scheggia.

Contando anche gli anni bisestili ho visto il sole sorgere undicimila volte.

È l’unica certezza che si ha sempre, e ora questa eclissi imminente mi ha insegnato a non dare per scontato neppure il sole.

È sempre stato là e ora ho paura di non averne goduto abbastanza.

So già che in quei pochi minuti di buio rimpiangerò di non aver sfruttato a pieno gli anni di luce. Ma l’uomo che si accorge di quello che aveva solo quando l’ha perso è una storia vecchia quanto l’universo.

Quante donne avrei sposato solo dopo che con loro era finita.

Non sono mai diventato un marito dopo aver detto sì, ma ho contratto matrimonio un sacco di volte dopo aver detto addio.

E sai che ti dico? Donne e universo non sono cose poi così diverse.

Con entrambe quando esprimi il massimo sforzo per arrivare alla conquista, puoi star certo di ricevere un sonoro rifiuto. Attratti solamente dall’indifferenza.

L’universo è una puttanella e puoi conquistarti i suoi favori solo fingendo che non te ne freghi niente.”

Nel mentre maneggiava uno zainetto, solo che invece di metterselo sulla schiena, lo posizionò davanti.

Sembrava una donna incinta, solo che quando diceva “parto” intendeva un’altra cosa.

“E se fosse tutto causa del mio vivere veloce?

Ho passato gran parte del mio tempo a studiare per aver di cosa vivere, accorgendomi solo ora che non ho cosa vivere e neppure con chi farlo.

Passi la vita a cercare il posto fisso, quando l’unica cosa che vuoi è perderti in qualcuno.

Ho speso gran parte del mio tempo a costruirmi una morale, un codice di comportamento che mi indirizzasse in tutte le mie scelte, una guida per le strade da intraprendere.

E ora non ho nessun compagno di viaggio.

Passi la vita a cercare di diventare un uomo tutto di un pezzo, quando l’unica cosa che vuoi è lasciare negli altri un pezzo di te.

Ho provato più volte a cambiare città per darmi una scossa, ma i demoni non hanno fissa dimora, sono dei bagagli che ti porti dietro e che appesantiscono il tuo viaggio.

E quando ogni sera che torni a casa sono gli unici ad aspettarti, cominci ad apprezzare la loro compagnia.

Passi tutta la vita a cercare quattro mura dove vivere, quando l’unica cosa che vuoi è abbattere i muri degli altri.”

Lo vedevo armeggiare col cellulare.

Solo che quando diceva di volerci mandare un “messaggio” intendeva un’altra cosa.

“Sai sono diverse le leggende antiche che spiegano l’eclissi.

I Vichinghi immaginavano una coppia di cani celesti che inseguivano Sole e Luna per poterla mordere: quando uno dei due ci riusciva, ecco che si verificava l’eclissi.

In Vietnam erano una rana o un rospo a divorare il Sole o la Luna.

In cinese, la parola più antica per descrivere l’eclissi è “shih”, che significa ‘mangiare’.

È incredibile come anche quando si guardino le stelle non si riesca ad andare oltre il proprio stomaco.”

I suoi toni cominciavano a infervorarsi.

Solo che quando diceva di “accendersi” intendeva un’altra cosa.

“Sai qual è l’unico punto dell’universo dal quale non puoi vedere la Terra? Dal pianeta Terra.

E ciò mi ha fatto pensare.

Ho cominciato a guardare le cose da lontano e non più dall’epicentro dove accadevano.

E il vuoto che sento dentro non è altro che lo specchio del vuoto che lascio nelle persone.

Quello che ci dà una forma completa non è che l’insieme di pezzi che lasciamo negli altri.

Siamo mosaici.”

L’eclissi era entrata nel pieno.

Gli altri erano appena arrivati.

La città, tra chi guardava lo spettacolo e chi non aveva ancora avuto il tempo di accendere la luce, era immersa nell’oscurità.

Rivolto a tutti disse.

“Per una volta sarò quelli che tutti guardano.

L’unica luce nel buio.

Il sole ci ha traditi, ma ci sono io a splendere per voi.

Non avrò mai più dubbi di aver lasciato qualcosa di me in voi.

Ma non lo faccio solo per me, d’ora in poi ogni volta che vi mancherò vi basterà rivedervi tutti assieme.

Vi regalo un motivo per restare assieme.

Mi disintegro per creare unione.”

Una fortissima luce prese il posto del nostro amico, il boato che ci rese sordi per un po’ ci evitò la fatica di trovare qualcosa da dire.

L’inutile sforzo dell’urlare.

Quando diceva che avrebbe “brillato” intendeva un’altra cosa.