martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Un sogno premonitore, Michael Crisantemi


Un sogno premonitore
Michael Crisantemi


A ti sólo,

amor mío.

Nemmeno quel mattino riuscì a svegliarsi prima che le campane, da qualche parte, suonassero il mezzodì.

I raggi del sole accendevano d’argento e di speranze il mare che, nolente, li separava e li riuniva, nell’andirivieni incerto della risacca. La luce del Mediterraneo inondava la stanza, seducendo i cristalli appesi al soffitto che la frantumavano in baleni di luci colorate. Proprio come doveva essere, perché le attese sono le schegge che tolgono il fiato e aprono ai ricordi.

Lucas si rigirò nel letto un paio di volte. Affondò la faccia nell’altro cuscino, che giaceva inutilizzato ormai da tempo, e inspirò forte quel barlume di profumo che alla sua mente d’innamorato pareva essere rimasto.

“¡Me voy a correr!”. “Córrete amor”. “Los dos juntos”. “Me encantas”. “Y tu.” “¡Te quiero!” “¡Anda bobo!”

Solo così trovò la forza per alzarsi. Che giorno era? Poco gli importava. Il suo nome, invece, lo ricordava bene.

Come prima cosa andò a controllare la posta elettronica, i rifiuti che gli giungevano dalle case editrici ormai erano diventati la sua colazione, il suo pranzo e la sua cena. Di lui invece nessuna traccia. Lo avrebbe atteso, come faceva ormai da tempo. Che importavano cent’anni? Che importava un sol giorno?

Tornò alla e-mail dell’editore, almeno questo aveva avuto la cortesia di spiegare il suo diniego: scriveva bene sì, questo era fuori di dubbio, il romanzo scorreva ma mancava di personalità. E poi avrebbe fatto bene ad abbandonare l’autobiografia, perché “l’io è morto” e avrebbe dovuto uccidere il suo stesso io.

Lucas scoppiò in una risata isterica. L’io era morto e lui non se n’era accorto. Decise che era opportuno scrivere una lettera a Freud, qualcuno avrebbe dovuto avvertirlo. Frugò nel cassetto per cercare un foglio, trovò solo un pezzo di carta logorato dal tempo. Lo guardò con curiosità: era una versione di greco, ricordo dei suoi anni felici. Una favola di Esopo: “Un sogno premonitore”.

“Una notte, un vecchio pauroso sognò che un leone avrebbe ucciso il suo unico figlio. Si svegliò allora di soprassalto e l’indomani rinchiuse il figlio in una stanza che ricoprì di ogni comodità. E per rendergli più gradita la permanenza all’interno, dipinse diversi animali alle pareti, fra i quali c’era anche un leone...”

Era passato tanto tempo, tradurre senza vocabolario gli risultava troppo difficile. Impossibile. Lasciò la morale agli altri, come sempre. Con Freud, invece, avrebbe fatto i conti più tardi.

Nel frattempo si era fatta l’una. Lui sarebbe potuto tornare da un momento all’altro e Lucas voleva che tutto fosse in ordine per il suo arrivo. Apparecchiò la tavola: stese con orgoglio la tovaglia di seta e i bicchieri di cristallo, le forchette del servizio buono, non quelle di tutti i giorni.

Prima di mettersi ai fornelli, notò che uno dei bicchieri era leggermente scheggiato. Stava per cambiarlo quando gli scivolò di mano. Si ruppe in mille pezzi.

Quell’esplosione di vetri che già si perdevano per terra lo risvegliò da quell’incantesimo di cui era artefice e vittima al tempo stesso. Avrebbe perso una persona cara. Non sarebbe mai più tornato da lui. Era stato così ingenuo a pensare che prima o poi sarebbe stato suo. Solo ora se ne rendeva conto, mentre raccoglieva a mani nude i cocci di quell’amore che aveva tenuto su con un filo di voce.

Un vetro gli si conficcò in un dito: nemmeno un miliardo di schegge nella carne avrebbero eguagliato il dolore che portava dentro. Andò in bagno a sciacquare la ferita con acqua fredda. Si guardò allora allo specchio.

Era pronto a tutto ma non a quello, era pronto a tutto ma non a se stesso: la giovinezza era passata e con quella la bellezza. Cos’altro gli rimaneva? La vita era stata un sogno, e il risveglio molto peggio...

Prese un ombrello e cominciò a spaccare tutto quello che gli veniva a tiro: addio cristalli custoditi con cura, addio servizio buono e al diavolo quello di tutti i giorni. Ruppe i tavoli, le sedie, incendiò le foto e i ricordi.

Il clavicembalo era ben temperato, ma non quando lo suonava lui. Diede fuoco pure a quello. Addio vocabolari di greco, libri di poesie e velleità letterarie. Non poteva sopportare un solo rifiuto in più.

E mentre distruggeva quella che era stata la sua vita faceva il conto dei fallimenti che l’avevano popolata. Quante erano le stelle del cielo? Sicuramente meno degli amanti che lo avevano abbandonato. A tutti gli insuccessi diede un nome di spina e queste si conficcavano nel costato straziandogli l’anima. Ma la rosa è forse meno rosa se la si chiama in altro modo?

“Vedendo queste cose, il giovane ne soffriva maggiormente. Dopo qualche tempo, trovandosi vicino al leone, disse: <<Maledetta bestia, sono qui per causa tua e del sogno falso di mio padre! Cosa dovrei fare io? >>E detto ciò scagliò un pugno contro la parete e accecò il leone. Ma questo nascondeva una scheggia che si conficcò nel suo dito, che si gonfiò subito. Da lontano già veniva la cancrena e la febbre se lo portò via poco dopo. E così il leone lo uccise dopo aver vissuto inutilmente in una prigione dorata...”

Impastava vetri e sangue con le lacrime che scendevano dagli occhi copiose. La vita non aveva più senso ormai, senza di lui. Gli mancava la forza per ricominciare da capo, un’altra volta.

Afferrò una grossa scheggia di vetro e se la portò al collo. A questa affidò il suo destino, mentre la vita cercava inutili vie di fuga.

<< ¡Te odio! ¡Te odio! ¡Te odio! >> Urlò, cercando invano di uccidere il leone.

Il sangue intanto fecondava la casa di altro dolore alimentando le fiamme che divoravano i ricordi: per risplendere dovevano pur bruciare.

L’ultima tragedia si stava consumando davanti agli occhi ciechi di fantasmi che già lo pretendevano.

Si accasciò sfinito per terra, abbandonandosi a quello che più non poteva. Aveva vissuto una vita di illusioni ma le aveva seguite fino in fondo. Non avrebbe mentito proprio alla fine.

<< Y sin embargo te quiero...>>

E confidò alla vita tutto l’amore che l’aveva ucciso.

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