martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Il male, Marco Camalleri


Il male
Marco Camalleri

La porta cigolò, risvegliando una qualche attenzione nell’uomo e ricordando anche a me che in quello spazio – costretto – nonostante tutto esistevo.
Facile al secondino, che ogni giorno visitava la cella, elaborare la sua opinione. Facile anche per voi che ignorate la realtà – se esiste - di quella come di ogni altra giornata.
Facile!
Difficile è invece comprendere senza ricorrere ad un dubbio assolutorio. Difficile perché anch’io non ho cognizione del motivo del mio interesse per quel posto. Come non ha senso che proviate a chiedere cosa mi aveva attratto di lei, tanto da uscire da questa asfissia di buio profondo. È successo e tanto basta.
Lei!
Era solo un mucchietto di speranze lei, per un futuro che ho visto interrompere, di colpo, con le mani e con la durezza del legno. Uno, due, dieci, cento colpi male assestati. E agonia lenta osservata tra le lacrime - mie e sue - in una gelida coreografia di sangue e schegge di ossa e di esistenze, frantumate. Io e lei, pari nell’assenza di vita. Quasi una morte.
Quasi!
Il secondino parlava con la solita voce roca. Lo conosceva da una vita l’uomo in apparenza immerso nel sonno, ricoverato sotto la coltre di lana grigia. Gli era rimasto solo quel succedaneo onirico di libertà, e quel suo adesso lo impiegava nella veglia e nella carezza amorevole alla spranga. Si era scorticato le mani per giorni, celandole dentro le tasche della tuta logora. Per ogni piaga una scheggia della saldatura volata via; frammento dopo frammento il pezzo di metallo aveva ceduto, lasciando meno solida la brandina. Giorno dopo giorno, ora dopo ora. Poi, poi…
Crack!
Il rumore di un cranio che si sgretola ha in sé un messaggio, preannuncia un silenzio. La chiamate attività cerebrale, quella che d’un tratto si ferma. Lei, nella posizione fetale, sembrava stupita da quel rumore, da quella lacerazione della dura madre ferita a morte. Ho sempre percepito stupore nelle vittime, forse perché mi avevano immaginato come lontano e semplificabile, e solo nel momento della fine si erano realmente accorte di me. Credevano di avere una precisa idea di dove e cosa fossi: le seguivo non osservato e nascosto in vite definibili come normali e congrue con le loro sicurezze.

Già!
L’uomo e il secondino erano stati amici. Almeno finché il ripetersi dell’incontro dei loro volti non aveva strappato via il velo che impediva loro la vista. L’uomo aveva avvertito qualcosa simile ad una verità e iniziato a pianificare l’odio. Lo aveva distillato dalle parole, dalle allusioni, da vecchie coincidenze e dal ricordo di una sera ormai troppo lontana. Fino ai suoi ultimi istanti di vita non ho creduto avesse un motivo per quel sangue che andava colorando il pavimento della cella. Un liquore rosso che non trasportava più vita, era solo colore e desiderio di guardare nuovamente un cielo e ascoltare le chiacchiere insulse delle donne al mercato.
Libertà!
Il secondino a terra avvertì invece la mia essenza. Percepì che, lento come nella scena di un film, inquadravo silenzioso il suo volto sfigurato perdere espressione, giravo intorno al corpo, aspettando la smorfia stupita che mille volte avevo visto nei volti del fine vita. Forse pensava che quella fosse una giusta punizione, sanzione necessaria per le schegge di ossa, di metallo e di legno che la brutalità della sua mano aveva impresso alla mazza proiettando fiotti di sangue, umori scuri di interiora e frammenti di denti e preghiere. Schegge di lei.
Dio mio!
Il secondino aveva pensato a tutto: attività cerebrale la chiamate quella che gli suggerì di rubare l’auto dell’uomo. Si frequentavano da una vita i due, e da sempre conosceva quella casa e il posto delle chiavi. L’uomo le aveva cercate per un giorno intero e l’indomani ritrovate al loro posto, nello stesso istante in cui passavano in TV le immagini di lei ricoperta dal lenzuolo. Eppure aveva cancellato quel momento, recuperandolo solo troppo tardi, quando le analisi avevano dato il loro verdetto; dicevano che le schegge di tutto il frantumabile presente sulla scena del delitto erano ovunque in macchina. E poi la moglie non era in casa quella sera e le gomme avevano inciso il loro passaggio sulla strada maledetta. Non gli rimase che silenzio e rassegnazione dopo le parole gelide del giudice.
Silenzio!
L’uomo correva nel corridoio gremito di sbarre arrugginite e uomini spenti dalla pena. Correva e lo sapeva che l’agente di guardia aveva una buona mira e lui nessuno scampo. Lo sapeva ma correva lui incontro al proiettile con la spranga sporca di sangue in mano. Lo guardai precipitare, conscio che quella più che fuga era suicidio, e forse proprio questo a suo modo era scappare: farsi fermare dal colpo, estinguere la non vita tinta dal sangue di lei e dell’amico secondino che tanto si era prodigato falsamente in quei dieci anni.
Poi buio!
A questo penso, mentre fuoco e tenebra invadono la galleria. Intorno a me, schegge di metropolitana e di uomini e donne, vomitano morte su altri uomini e donne. Dell’epicentro di fuoco ricorderò gli occhi del ragazzo. Brillavano come l’innesco dell’esplosivo nello zainetto. Solo un attimo dilatato nel buio del vagone in deflagrazione, solo l’istante per rendere chiaro come un frammento di me si fosse infitto in ognuno dei passeggeri attoniti per quella inattesa pantoclastia. Ma tranquilli, non avvertirò mai una qualche sensazione mentre vengo espulso dalle vostre viscere in mezzo alla tempesta di schegge di vita e di morte proiettate nelle direzioni casuali dalla fisica dell’esplosione.
Poi luce!
Poco distante da quello che rimane della sua casa un bimbo coperto di polvere bianca di maceria cerca qualcosa o qualcuno. È solo, perché il caso lo ha voluto dalla parte sbagliata del confine. Ha ingoiato schegge di guerra e di paura. E dentro di lui io sono già virus, cupo e silente sino alla prossima esplosione.
Io solo di me ho in fondo paura.
Solo di me e del mio nome.
Solo di me, che sono il male.

Nessun commento:

Posta un commento