martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Una tazza di té, Sarah Bernardinello

UNA TAZZA DI TE’
Sarah Bernardinello



Mi piace questa panchina, starmene seduto in mezzo al verde, salutare chi come me è qui in vacanza.

Gli alberi offrono una piacevole ombra, e mi permettono di godere della frescura che è così difficile trovare in queste giornate calde: l’albergo, nonostante la sua aria condizionata, non mi dà la stessa sensazione.

Mi raddrizzo mentre passa Elisa, a braccetto con uno dei camerieri. Hanno una strana divisa, questi camerieri, sia gli uomini che le donne: un casacca e pantaloni azzurri. Originale, direi.

Elisa mi vede e mi saluta con la mano, e io le rispondo con un sorriso. È una ragazza graziosa, dai capelli castani. Dovrebbe tenerli sciolti, invece ha la solita coda di cavallo.

«Ci vediamo dopo per il tè, Massimo?» mi chiede, mentre si allontana.

«Ma certo, come sempre,» le rispondo. È diventata una piacevole abitudine, l’ora del tè: ci si siede intorno a uno dei tavoli nella grande veranda, si mangia qualche biscotto e si chiacchiera del più e del meno. Ho conosciuto gli altri ospiti, e ho fatto amicizia con qualcuno, ma la mia preferita è senz’altro Elisa: simpatica e ciarliera, mi ha conquistato con quella sua aria sbarazzina.

Sospiro soddisfatto, all’ombra dei miei alberi. Domani mi porterò un libro, si sta così bene qui.

La campanella mi riscuote dai pensieri. Mi avvio verso l’albergo, e ben presto oltrepasso la soglia della veranda. Qualche ospite è già arrivato e si sta accomodando. Mi dirigo al mio solito tavolo. Tra poco sarà qui anche Elisa, voglio farle trovare pronta la sua tazza con la bevanda profumata.

Mi siedo e prendo un biscotto al cioccolato dal piatto che troneggia in mezzo al tavolo. È buono e friabile, appena sfornato: il profumo di cacao e vaniglia mi penetra nelle narici, e lo assaporo ad occhi chiusi.

Sento la voce della mia amica e sollevo le palpebre. Sta attraversando la sala di corsa, il viso infuriato. Il cameriere che l’accompagnava la sta inseguendo gridando.

Mi ritrovo in piedi senza accorgermene, e nel farlo urto il tavolo, facendo cadere le tazze sul pavimento. Il rumore di stoviglie rotte mi penetra nelle orecchie, e abbasso lo sguardo. Le porcellane bianche e azzurre sono spezzate, le schegge sparse un po’ ovunque. Quella vista mi fa dimenticare Elisa e il suo strano comportamento.

Lentamente mi inginocchio sulle piastrelle, affascinato mio malgrado da quello che sto vedendo: allungo la mano per prendere ciò che rimane della tazza rotta, ma la ritraggo di scatto. Mi guardo le dita, alcune schegge si sono conficcate nei polpastrelli. Il dolore mi pervade tutta la mano, e guardo il sangue uscire dalle ferite. Questa scena sembra irreale, ma mi ricorda tanto… qualcosa.

Aggrotto la fronte, sembra che un vento di bufera stia impazzando dentro il mio cranio. Il tè ambrato che si è versato nella caduta è sostituito da un altro liquido di colore scuro, un liquido che assomiglia pericolosamente a quello che sta uscendo dalle mie dita ferite. Intorno a me scompaiono i tavoli, le persone, rimpiazzate da un altro ambiente, altri mobili. È un luogo che mi sembra familiare, anche se non ricordo di esserci mai stato.

Il pavimento è coperto dal liquido scuro, che sta uscendo copiosamente dalla gola di una donna stesa a terra. Vicino a lei c’è una tazza di porcellana rotta. Ha gli occhi aperti, sembra che mi stia guardando. Eppure io non la conosco. Non ricordo di conoscerla. Mi sta guardando e c’è dolore nei suoi occhi. Faccio per toccarla, ma non ci riesco, non ci arrivo. Mi viene voglia di urlare. La fisso e mi sembra che stia parlando, ma non sento la sua voce. Però riesco a leggere su quelle labbra esangui quello che sta dicendo, che sta cercando di dire.

Perché, Massimo?

Improvvisamente capisco che sta morendo.

Un dolore imprevisto mi trafigge il cervello. Mi afferro la testa, sembra che gli occhi vogliano schizzarmi fuori dalle orbite. Come se le schegge di porcellana mi stessero penetrando i pensieri, facendoli sanguinare. Invece stanno ricomponendo i vuoti della mia memoria. Il corpo steso davanti a me si sta sfocando, mentre i miei ricordi si fanno più vividi.

Rammento tutto, e mi sento così meschino, così scellerato, che il cuore mi si stringe. Quello che ho fatto a mia moglie è così terribile che per un attimo credo di soffocare per l’indignazione verso me stesso.

Il pavimento ha ripreso i suoi connotati, vedo il tè, le tazze rotte. Uno dei pezzi più grandi ha un fascino particolare. Lo afferro, lo ammiro. Lentamente lo ruoto e mi accarezzo l’interno del polso. È molto tagliente, mi piace.

Con un sospiro, non so se di sollievo o di rammarico, lo affondo nella pelle. C’è dolore, mi attraversa da capo a piedi, ma non mi importa. Questa volta è mio, il liquido scuro che bagna il pavimento…

Il medico copre il volto del cadavere con il lenzuolo e si alza. Getta un’occhiata a chi lo circonda e sospira.

«Povero Massimo,» è il suo unico commento.

Il direttore della struttura scuote la testa. «Voglio sapere perché l’ha fatto. I farmaci gli venivano somministrati regolarmente?»

Il medico annuisce. «Ma certo, sciolti nel cibo o nelle bevande. Lui credeva di essere in un albergo, non certo in una residenza psichiatrica. Non ho la più pallida idea di cosa abbia fatto scatenare il suicidio. A meno che…» Getta un’occhiata alla sagoma coperta dal lenzuolo.

«A meno che?» lo incalza il direttore.

«A meno che non gli sia tornata improvvisamente la memoria. Può accadere, un evento qualsiasi può far riaccendere quella luce che si era spenta. Forse la crisi di Elisa lo ha fatto ricordare. Anche sua moglie era bipolare, sa? Questa cosa lo ha segnato, fino alle conseguenze che sappiamo.» Tace, sospira. «La polizia sta arrivando?» L’altro annuisce, e lui getta un’occhiata al pavimento ancora coperto di schegge di porcellana. «Una metafora curiosa,» osserva. Vede lo sguardo del direttore, ma tiene per sé l’ultimo pensiero. Le schegge sono andate a ricomporre una memoria mutilata.

La sirena della polizia lo scuote e insieme al direttore si dirige all’ingresso.

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