martedì 23 dicembre 2014

semifinali - La quinta scheggia, Annalisa Rizzi

LA QUINTA SCHEGGIA
Rizzi Annalisa 

«Cos’è questo, zio?»

L’uomo si voltò verso la nipote. «Dove lo hai preso?»

La donna gli restituì un’occhiata sulla difensiva. «Beh, fra la tua roba, naturalmente. In questo scatolone.»

Il vecchio si alzò dalla sedia, aiutandosi con il bastone. Caterina non ricordava di averlo visto una sola volta senza.

Lui arrancò, raggiungendola, gli occhi fissi sul barattolo di vetro. «Non voglio che lo tocchi.»

Il tono burbero che suo zio aveva usato la offese. «Allora, forse, dovresti disfare i tuoi bagagli da solo» brontolò lei, riponendo l’oggetto dove l’aveva trovato facendolo tintinnare, e accennando ad andarsene.

Lui attese che lei arrivasse sulla porta di quella stanza sconosciuta, poi sospirò. «Caterina, aspetta.»

Lei si fermò.

Già le era difficile accettare quella nuova convivenza, vista la situazione. Ma che il carattere del suo vecchio zio si rivelasse tutt’altro che socievole, rendeva le cose di gran lunga più difficili. Sospirò a sua volta, voltandosi e attendendo.

Il vecchio non la guardava direttamente. Teneva gli occhi bassi, come se stesse cercando sul pavimento le parole da rivolgerle. Dopo un istante infinito che stava cominciando a spazientirla, disse solo: «Scusa».

Quell’unica parola ebbe il potere di addolcirla. In fondo, neanche lui avrebbe voluto trasferirsi a casa sua. Però… il periodo era quello che era. La Crisi. Una parola che era entrata a far parte del vocabolario comune, il cui significato principale per loro consisteva nella svendita di una casa e nella coabitazione forzata.

«Scusa tu», rispose, cercando di riappacificarsi con lui. «Non avrei dovuto risponderti male.»

Finalmente sentì di nuovo lo sguardo dell’anziano su di sé. Ogni traccia di scontrosità era scomparsa dal viso rugoso. Lui fece qualche passo e ripescò il barattolo di vetro dallo scatolone. Con un piccolo sforzo, si diresse nuovamente alla sedia. «Se vuoi ti racconto cos’è. Dubito che poi vorrai toccarlo di nuovo.» disse, tristemente.

Caterina aggrottò le sopracciglia. Non sapeva molto di suo zio. Da un lato aveva voglia di sentire cos’aveva da dire, dall’altro temeva un racconto barbosissimo in cui avrebbe dovuto reprimere gli sbadigli.

L’espressione mesta di lui, però, ebbe la meglio. Raggiunse la sedia dall’altro lato del tavolo e si accomodò, in attesa.

L’uomo osservava il contenuto del barattolo, rigirandolo. Una manciata di pezzettini di metallo ritorto rincorrevano la forza di gravità scivolando sul vetro cavo.

«Sono quattro. » Disse, cominciando a narrare. «Quattro piccole schegge. Ma ne manca una.»

La donna gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Schegge di cosa?»

Il vecchio prese fiato. «Di morte.» disse, infine.

Già. La famosa ferita di guerra di suo zio. Ora ricordava. Sua madre doveva avergliene accennato, una o due volte. E adesso ricordava anche che suo zio non ne parlava volentieri. «Perché me lo vuoi raccontare?» Non riuscì ad impedirsi di chiedergli.

Lui la guardò accigliato. «Perché forse è ora di estrarle, finalmente.»

***

Caldo.

Quel giorno era torrido da matti. Non si sarebbe mai abituato a quel clima afoso. I piedi bollivano dentro gli scarponi, il giubbotto antiproiettile pesava sulle spalle già stanche.

Fortunatamente, doveva essere solo una ronda di routine. Una di quelle da riportare nel brogliaccio con un “nulla di rilevante da segnalare” in calce.

Ma poi, qualcosa era andato storto.

Una scarica di proiettili si era improvvisamente avventata sul mezzo semiblindato. Alcuni avevano colpito gli spessi pneumatici, facendoli sbandare. La camionetta finì in velocità su un cumulo di terra e macerie, cadendo su un fianco.

Qualcuno riuscì ad uscire, solo per essere investito dai proiettili.

Lui non poteva. Lui era incastrato sotto il corpo di uno dei suoi compagni. Cercò di sfilarsi da sotto, spingendosi con la gamba libera allo schienale del sedile davanti.

Poi arrivò l’esplosione.

E con essa, tutto attorno a lui si spense in un accecante lampo d’orrore.

***

Caterina non riusciva a staccare gli occhi dal barattolo. Suo zio continuava a farlo roteare, in una lentezza ipnotica. «Non so quanto tempo sono rimasto lì. So solo che me la sono cavata con poco, perché il corpo di un compagno mi ha protetto. Sono solo stato colpito alla gamba che stavo cercando di liberare. Di cinque schegge, sono riusciti ad estrarmene quattro. Di cinque militari, sono rimasto vivo solo io.»

Il vecchio tacque. La donna lo guardò, con la bocca improvvisamente arida. «Perché non hanno potuto estrarre la quinta?»

Lui alzò le spalle, riabbassandole mestamente. « È conficcata nell’osso. Troppo vicina ad una vena importante, mi hanno detto. Non hanno voluto rischiare di farmi perdere la gamba.»

Le schegge tintinnarono. Finalmente lui alzò gli occhi, e lei vide che erano pieni di lacrime. « In realtà è come se queste schegge non me le avessero mai estratte. Sono ancora dentro di me, ognuna di queste quattro conficcate in fondo all’anima. Ognuna con il nome di uno dei miei compagni inciso sopra. Nessuno riuscirà mai a strapparmele vie dal cuore. Non finché continuerò a restare vivo. Non riuscirò mai ad estrarle del tutto, continueranno sempre a farmi male.»

Finalmente, una delle lacrime cadde dagli occhi stanchi.

Caterina si alzò piano, avvicinandosi a quell’uomo di cui sapeva così poco… e che tuttavia, dopo quel racconto, conosceva meglio di chiunque altro. Con gentilezza gli tolse il barattolo dalle mani, per poggiarlo delicatamente sul tavolo.

«Zio, solo una delle schegge ti è rimasta dentro… e forse è quella sola che continua a farti soffrire. Ma quella non si può togliere. Le altre le hanno estratte tanto tempo fa. Le altre sono altrove, adesso. Rinchiuse in un barattolo di cui non vuoi liberarti.»

Il vecchio la osservò in silenzio. Poi annuì. Lentamente aprì il barattolo e ne tolse le quattro schegge, toccandole per la prima volta dopo tanto tempo. «Hai ragione.» Disse, cercando di alzarsi. «Sono troppo vecchio per farlo da solo. Per favore, aiutami a seppellirle.»

Insieme, uscirono dalla stanza.

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