martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Scatti, Salvatore Anfuso


Scatti
Salvatore Anfuso

Pareti bianche. Cornici piene di vita. Occhi. Volti.
Emozioni. Schegge di ricordi. Soprattutto questi: i ricordi.
Ricordi quella volta sul catamarano? Non eravamo mica sul Nilo, vero? Strano, non ricordavo coccodrilli nei paraggi. E quella volta a Venezia? La gondola si era quasi rovesciata, per fortuna che c’eri tu a tenermi. Come dici? Il più bello? Oh non saprei, ce ne sono molti. Sai, in tanti anni. Forse… la prima volta. Sì. Quello. La prima volta che la tenni in mano. Fu un dono,sai? Non me l’aspettavo. Non ci pensavo neanche. Che emozione. Andavo in giro tutto il giorno con lei. A quei tempi tutto tendeva ad avere dimensioni notevoli e io facevo quasi fatica a sorreggerla. Le foto venivano mosse. Che disastro che ero.
Ah, intendevi i ricordi immortalati. Be’, ce ne sono molti anche di quelli. Li dovresti conoscere, tanti erano tuoi: il mio soggetto preferito. Come quella volta a Parigi; c’era già la Tour Eiffel? Sì, scherzo, non sei così vecchio. Forse sono io a sentirmi tale da quando sono seduta su questa sedia. Sceglierne uno? Non è facile sai? A modo mio li amo tutti. Sono ricordi, ma anche figli.
Gli occhi volsero verso la parete. Fra le tante cornici, una attirò il suo sguardo.
Uno forse lopotrei scegliere, in effetti. Ero al parco quella mattina. Camminavo con la mia Polaroid cercando tra la gente l’ispirazione del principiante. C’era un sole caldo, tanti bambini, tanti genitori, perfino tanti colombi. La luce si rifletteva sul laghetto, abbagliandomi mentre cercavo di ritrarre una famigliola di anatre. Poi sentii passi affrettati sul selciato, risa e voci giovanili. Mi voltai con l’occhio ancora poggiato sull’obiettivo e ti vidi. Ti eri fermato a una fontana. Indossavi pantaloncini cachi euna polo bianca. Eri chinato in avanti per bere, ma con il viso girato da un lato per osservare un amico e sorridevi. Sorridevi come sorridono le persone felici. Scattai. Fu l’istinto. Un battito di cuore rallentato. Il tuo sorriso dalle labbra color ciliegia e le fossette ai lati. I capelli neri a caschetto e gli occhi azzurri. Fu l’amore. Non fu sfuggente come dicono, né un colpo di fulmine come narrano. Nessuna scarica di adrenalina. Nessun battito accelerato, né sospiri. Fu la consapevolezze che eri tu.
Qualcuno mi spinse passando, forse un bambino che correva, e invece di fotografare te, immortalai le anatre. Una delle tante foto mosse della mia vita. Uno dei tanti rimpianti. Darei un pezzetto di cuore per quella foto; il momento esatto in cui mi sono innamorata di te. Sarà per questo che non abbiamo mai avuto figli?
No, hai ragione, quella non è una foto. È solo una cornice vuota. Come vedi ce ne sono molte. Te lo sei sempre chiesto, vero? No? Be’, sono foto. Foto che non sono mai riuscita a scattare. Rimpianti più che ricordi, hai ragione. Come sempre. Tutto razionale tu, diversamente da me che vagavo in cerca di me stessa con la macchina fotografica in mano. Come quella volta in India, tra i santoni. Camminavamo tra la folla. Una macchina più moderna appesa al collo mi oscillava davanti al seno. Ricordi? Indossavo una canotta bianca, attillata. No? Certo, non ricordi. Eri impegnato a guardarti attorno, un po’ disgustato da tutta quella umanità. Cercavo di ignorarti e sorridevo, ma i miei occhi tornavano sempre sul tuo volto afflitto. Poi il tuo sguardo cambiò, attirato da una donna seduta al suolo che chiedeva l’elemosina. Presa dalla speranza ti pregai di avvicinarti. Volevo fotografarti mentre le allungavi l’obolo. Il mondo avrebbe saputo quanto sai essere generoso! Non avevi pezzi piccoli, così te li diedi io. Ti chinasti stendendo il braccio, ma eri distante, diffidente, e la donna si dovette allungare. La veste le si aprì sul davanti e un seno fece capolino. Da quello il tuo sguardo fu attratto. Bruciai la foto naturalmente, ma solo dopo averla sviluppata. Volevo vedere bene i tuoi occhi. Un’altra cornice vuota appesa al muro.
Ti sei fatto perdonare, certo. L’anello alla mano lo dimostra. Una cena romantica prima, la dichiarazione dopo. Tu, elegantissimo, inginocchiato davanti al tavolo del ristorante. Come una favola. Per qualcuna lo sarebbe stato. Ma si deve trarre il meglio da quello che si ha, no? Lo dici sempre. Quella volta la foto ce la fece qualcun altro. Lo avevi ingaggiato tu, vero? Un fotografo da matrimonio per riprendere noi due. Un fotografo da cartoline che riprende me! Quella foto c’è, se te lo stai chiedendo. È proprio lì, appesa al muro. Non ci sono solo cornici vuote dopotutto. La mia espressione? Be’, sì, ero emozionata anche se guardavo altrove.
No, adesso non ho voglia di fare due passi. Ti ringrazio. Credo che starò ancora un po’ qui, seduta. Riprendere? Uno dei miei desideri più grandi, lo sai. Sai anche che non posso. O te lo sei dimenticato? Dicevi per dire? Dovresti dire meno spesso quello che pensi, sai?
A ripensarci, mi fa davvero imbestialire questa cosa che hai detto. La trovo irritante. Offensiva. Se non fosse stato per questa malattia esporrei ancora al Guggenheim Museum di New York. Invece... le foto vengono tutte mosse ormai. Ma tu che ne sai? Tu, che sei un ragioniere. Tu, che lavori in banca contando i soldi degli altri. Senza mai uno stimolo, una passione. Senza un vero fuoco nel petto e un desiderio nello stomaco. Avrei dovuto lasciarti a Calcutta, inebetito dai cumuli di spazzatura e dai ragazzini a piedi nudi. Sono anni che quelle cornici sono appese alla parete e non ti è mai venuta la curiosità di chiedermelo? Non osavi, certo. Non osi mai tu, che pensi sempre di essere inopportuno. No amore mio, non sei inopportuno; sei di troppo. Nel mondo di uomini come te ce ne sono molti, che differenza può fare uno in meno?
Lo sguardo dell’anziana si posò su una sedia vuota lì accanto. Una lacrima colpì una polaroid ingiallita che tremava senza sosta nella sua mano, scivolando su una famigliola di anatre sfuocate che nuotavano in uno stagno.
Già, che differenza puoi fare?


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