martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Schegge, Antonio Borghesi


Schegge
Antonio Borghesi

Ci fu un lungo silenzio da parte di Elena. Com’era possibile, che dopo quattro anni d’assenza, suo marito Peter osasse chiamarla al telefono? Avrebbe voluto riattaccare, ma un qualcosa nella sua voce, un tremolio, un’incertezza, l’aveva bloccata.
«Dove sei? Dove diavolo sei stato in questi anni? Come osi farti sentire dopo così tanto tempo? Perché chiami solo adesso? Mi hai lasciato …».
«Elena! Elena! Scusami. Hai ragione. Sono a Las Vegas. Vorrei solo rivedere te e le gemelle. Dimmi che state bene. Quando ci vedremo ti racconterò».
«Peter non puoi riapparire dal nulla e chiedermi d’incontrarti, così, senza una pur minima spiegazione».
«Vediamoci Elena! Sono alla stazione dei Greyhound, qui a Vegas. Dove sei? Vengo da te. Voglio solo rivedervi. Mi siete mancate moltissimo. Fammi venire da te. Per favore. Ti spiegherò. Capirai».
«…OK. Aspettami. Vengo io da te».

Elena, come aveva sentito la voce di Peter, aveva bloccato istintivamente i freni della sua nuova Mercedes, accostando al bordo della strada. Dopo la telefonata aveva invertito la marcia dirigendosi verso Las Vegas. Aveva guidato come un automa, la mente sconvolta da mille pensieri. Soprattutto su di lui e la sua ingiustificata assenza, ma anche su se stessa. Non poteva certo dirgli che quel suo nuovo benessere proveniva dal suo lavoro nella Polizia anti-prostituzione. Gli avrebbe dovuto spiegare dell’altro lavoro, quello nel bordello di Madame Lona? Sì ma come? E lui che aveva da raccontare? Quattro anni senza farsi sentire! Non era senz’altro lei a dover delle spiegazioni! Chissà che gli era successo? Certo che per non fare nemmeno una telefonata in tutto quel tempo la spiegazione avrebbe dovuto essere veramente convincente. Sarebbe stato lo stesso di prima? Ma perché se n’era andato, così, senza un gesto, senza un avviso? OK. Adesso doveva calmarsi. La stazione degli autobus non era lontana. Ancora un paio d’isolati. Eccolo! Era in piedi sotto la tettoia. Guardava nervosamente a destra e a sinistra. Lo stesso fisico possente di un tempo. Elena sentì una fitta al cuore. Capì che per lei nulla era cambiato. Chissà che le avrebbe raccontato?

Peter aveva visto la Mercedes rallentare e fermarsi davanti a lui. S’era abbassato per controllare chi fosse alla guida e aveva visto il magnifico viso di Elena incorniciato dai lunghi capelli dai riflessi d’ossidiana. Come lei, aveva avuto un tuffo al cuore. In quell’ora d’attesa, anche lui s’era posto tante domande, certo però che dopo la sua spiegazione lei avrebbe capito e che quei quattro anni sarebbero stati dimenticati. Si era precipitato ad aprirle lo sportello. Lei era uscita e tutte le domande d’entrambi s’erano frantumate in mille schegge. Nemmeno una parola. Si erano abbracciati e baciati a lungo, inconsapevoli del mondo che li circondava. Poi erano entrati nell’auto. Avrebbero avuto quattro ore per spiegarsi prima d’arrivare a L.A.

Fu Peter a parlare. Quella sera, dopo la festa per il secondo compleanno di Deborah e Denise, era ritornato a Las Vegas per cominciare il suo turno al Caesars Palace. Non c’era mai arrivato. Si era svegliato in una cella dalle pareti imbottite, legato polsi e caviglie ad un letto d’ospedale. Non ricordava nulla ma non gli importava. Era come se il suo cervello fosse avvolto in una coltre d’ovatta dove dei pensieri, forse non suoi, sembravano infiltrarsi. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a quei signori col camice bianco ma non riusciva a parlare. Gli sembrava però che qualcuno tentasse di comunicare con lui. Non aveva cognizione del tempo. La monotonia dei giorni veniva interrotta solo da degli esami. Lo infilavano in strani macchinari ronzanti per poi riportarlo in cella. La sua memoria accumulava i nuovi fatti e le parole silenziose, che però lui percepiva, di quegli uomini in camice. Dopo un’ulteriore TAC della sua massa cerebrale aveva “sentito” uno di loro che raccontava come nel suo cervello avessero riscontrato, tra le sinapsi, la presenza di schegge di minuscole dimensioni che creavano delle onde magnetiche interferenti con quelle normalmente generate dai neuroni nelle fasi d’allerta e di pensiero. Quelle schegge, di un materiale non appartenente ad alcuna classificazione terrestre, sembravano rielaborare la conoscenza e trasmetterla. Peter non aveva capito quella spiegazione. Avrebbe avuto voglia di chiedere ma per un lungo periodo non ne era stato capace. Viveva come un vegetale, senza reazioni proprie. All’improvviso, dopo essere stato sottoposto ad un ennesimo esperimento con macchine dal campo magnetico ancor più potente, s’era accorto d’aver ripreso le proprie capacità fisiche. Aveva sorpreso tutti chiedendo di poter alzarsi da solo. Il suo calvario era peggiorato. Gli esami erano diventati assillanti. Aveva spiegato di poter “sentire” le idee degli astanti, ma non di tutti. Non poteva leggere la memoria ma solo i pensieri che si stavano formando. Era stato subito preso in gestione dall’Intelligence militare e trasferito in una località segreta. La semplice cattura d’un pensiero gliela aveva fatta scoprire. E li chiamavano Intelligence! Era la famosa Area 51 nella Nye County del Nevada. Elena a quel nome aveva avuto un piccolo scarto col volante. Erano sempre stati vicini! L’avevano mantenuto in splendida forma con un programma da Navy Seals, pur continuando a sottoporlo ai test. Erano state avanzate diverse teorie su quelle strane schegge. La più logica, per quel sito dove gli UFO erano di casa, era una sua adduzione da parte di qualche E.T. e l’impianto di quel materiale che avrebbe poi permesso, a chi l’aveva effettuato, di ricevere informazioni. Apparentemente quella strana facoltà di leggere i pensieri, col tempo, si era attenuata fino a svanire. La sua memoria era tornata. Peter non serviva più. Dopo avergli fatto firmare vari disclaimer e rifornito di un sostanzioso conto in banca, l’avevano liberato.

Elena era rimasta in silenzio per tutto il racconto. L.A. era vicina ed era lei ad avere in mano le carte per la prossima mano.

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