martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Il vostro abito è la semplicità, Enrico Arlandini

Il vostro abito è la semplicità
Enrico Arlandini


Alberto sorseggiava un tè freddo, allontanando pigramente un nugolo di zanzare, interessate a tutt’altro genere di liquido. Ripensava a quando aveva messo piede in paese dopo un estenuante viaggio, dovuto alle indicazioni stradali, talmente carenti da farlo impazzire.
A proposito di sanità mentale, quei luoghi non avevano nulla da invidiare a un reparto psichiatrico.
Nessuno degli abitanti era in realtà pericoloso, soltanto bizzarro.
All’inizio Alberto aveva notato una profonda diffidenza nei suoi confronti e non se l’era sentita di biasimarli.
Lui, ingegnere di gran nome, era arrivato di punto in bianco per la costruzione di un importante centro termale, che avrebbe attirato clienti anche fuori dai confini nazionali.
I paesani non si rendevano conto che la particolarità dell’acqua nel sottosuolo poteva rappresentare una miniera d’oro per la modesta economia del luogo.
L’area destinata all’innalzamento del complesso era stata scelta per la vicinanza al corso d’acqua e la vista mozzafiato sulla catena montuosa circostante.
La semplicità con la quale Alberto, durante improvvisate sedute pubbliche, aveva spiegato che il flusso di turisti non sarebbe stato un danno, bensì l’opportunità di promuovere
l’artigianato locale, sembrava aver fatto breccia nella loro dura scorza, tranquillizzandoli.
In realtà l’ingegnere sospettava che la notorietà avrebbe sconvolto i pacati ritmi di quelle persone schive e semplici, ma doveva eseguire ordini superiori.
Mentre procedeva per controllare lo stato del cantiere, rallentò nei pressi dell’abitazione di Gino, curvo sul banco da lavoro.
L’uomo gli rivolse un sorriso sdentato, invitandolo a entrare.
Si credeva un novello Leonardo da Vincio, storpiando il nome del celebre inventore.
Con un moto di orgoglio sollevò un contenitore di vetro, all’interno del quale Alberto notò minuscole schegge di legno.
Gino spiegò con enfasi che erano frammenti della Croce del Golgota, che soltanto lui al mondo possedeva.
Una volta che le terme fossero state aperte al pubblico, avrebbe racimolato una cospicua somma di denaro dalla vendita di quelle reliquie. Insisteva per regalarne una ad Alberto, ma l’ingegnere lo esortò a conservarle per i futuri acquirenti.
Lasciato Gino a custodire le schegge che probabilmente appartenevano al banalissimo scafo di un’imbarcazione o alla corteccia di un tronco, Alberto si allontanò, assaporando l’aria frizzante del mattino.
La quiete, interrotta solamente dal rombo dei trattori e dal costante picchiettare degli attrezzi da lavoro, sarebbe stata presto turbata da colonne di auto e pullman.
I clienti delle terme avrebbero osservato i paesani come animali di uno zoo, deridendo la loro ignoranza.
Non lo meritavano, concluse tra sé Alberto, mentre raggiungeva il capocantiere, complimentandosi per i progressi.
L’ora di pranzo era ancora lontana, quindi aveva tempo per un saluto a Don Marino, con il quale amava conversare, apprezzandone la curiosità intellettuale e i saggi consigli.
Lo trovò impegnato a spiegare a un’anziana fedele che non era necessario confessarsi due volte al giorno, perché il più grave peccato che potesse commettere in quell’intervallo era sparlare di qualche compaesano o invidiare l’abito di una vicina.
Occorse la sua abilità di persuasione per convincerla
a desistere dal suo intento; la donna si allontanò borbottando
che non esistevano più i preti di una volta.
Finalmente Don Marino fu libero di dedicarsi all’amico Alberto. Seduti all’ombra degli alberi cominciarono a disquisire sulle prospettive di sviluppo del paese che, secondo il prete, erano soffocate dalla brama degli investitori, interessati soltanto al lucro.
Alberto commentò ironico che personaggi di quel tipo non sarebbero mai andati in Paradiso.
Don Marino gli domandò, spiazzandolo, come immaginasse
il Paradiso. All’ingegnere balzarono alla mente immagini di soffici nuvole e cori angelici, dimostrando che anche gli incorreggibili stonati avrebbero avuto in cielo la soddisfazione di cantare divinamente.
Gli sembrava troppo ovvio utilizzare quella descrizione, in effetti.
Stava ancora cercando le parole giuste quando venne distratto dal volume della musica che fuoriusciva da un’auto di passaggio. Il guidatore, uno dei pochi giovani rimasti ancora in quel fazzoletto di terra, era abbigliato in modo vistoso e di deprecabile gusto.
Evidentemente trascinato da quel sound, abbassò del tutto il finestrino, urlando a squarciagola: «Essiamonoi, essiamonoi, il paradiso siamo noi. »
Alberto associò subito la scena a uno dei tormentoni del comico Giovanni Vernia.
Guardò l’amico sacerdote cercando di rimanere serio, ma entrambi scoppiarono in una fragorosa risata.
Concordarono che il tema del quale si erano occupati era uno dei grandi dubbi dell’uomo, e tale sarebbe rimasto.
Ogni tanto occorreva abbassare il livello, occupandosi di argomenti meno spirituali.
La felicità aveva innumerevoli forme: per alcuni il paradiso era composto addirittura dalle luci stroboscopiche di una discoteca, dove dimenarsi come tarantolati.
Anche il corpo, infatti, richiedeva le sue attenzioni, rifletté Alberto, pensando al suo appetito.
Dopo essersi congedato dal prete già pregustava un piatto fumante di spaghetti.
All’improvviso Gino si parò di fronte a lui, ostruendo il passaggio. Rigirava tra le mani un ciondolo dal quale pendevano alcune delle famose schegge.
Voleva che accettasse quel regalo, talismano che lo avrebbe protetto da ogni negatività. Alberto mostrò di gradire il gesto, provocando nell’altro un moto di gioia.
Il personale paradiso di Gino consisteva nel dedicare attenzioni al prossimo, per sentirsi accettato e benvoluto.
Nessuno dei compaesani accennava mai al suo ritardo mentale: sapevano andare oltre, fino all’anima delle persone.

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