martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Caleidoscopio, Simone PIani

Caleidoscopio
Simone Piani


 I Frammento

Strinsi tra le mani un ramo, non avevo idea se fosse di platano oppure di castagno, ero nel folto del bosco e non m’intendevo di dendrologia. Non era che un pezzo di legno, un insieme di fibre e cellulosa. Ne osservai le pieghe della corteccia, gli incavi invisibili, le trame irregolari e le cento e più sfumature che ne variavano la superficie.

Visto così sembrava solido, quasi un albero in miniatura. Cercava forse di mostrarsi per come non era: fragile. Restava silenzioso e si faceva osservare. Una volta era parte di qualcosa di molto più grande, ma era caduto, aveva perso il suo sostegno; per molti giorni era rimasto sdraiato pesantemente per terra, inerte.

Alzai il bastone al cielo, un’estremità salda tra le dita, l’altra puntata versole nuvole come un parafulmine. Lo lanciai. La sua traiettoria a parabola, rapida, immediata, fu come uno squarcio, una ferita nell’aria. Ci fu uno schianto sordo e il legno si spaccò. Le schegge del ramo partirono in tutte le direzioni. Nessuna possibilità, l’interezza si era divisa, l’unità si era spezzata.

Un segno bianco sulla pietra contro cui il legno aveva terminato il suo volo era l’unico ricordo rimasto.

II Frammento

Tardo pomeriggio, mi preparavo per esibirmi in piazza, pubblicamente. Amavo fare così in quel periodo. Niente teatri sfarzosi, niente palcoscenici, non volevo sentire alcuna distanza da chi avrebbe assistito al mio spettacolo.

Una ragazza sui quindici anni appoggiata ad una panca osservava i miei movimenti con poca attenzione; fumava chiacchierando con un’amica che pareva non ascoltarla. Una coppia sottobraccio camminava in direzione di una gelateria artigianale: ridevano sereni.

Ora la gente iniziava a radunarsi curiosa attorno a me. Poco prima le persone attraversavano la via, immerse nei loro pensieri o impegnate in lunghe discussioni. Sul volto di ognuna di esse vedevo una maschera. Una maschera simile a quella che indossavo quando recitavo la mia parte; una maschera grazie alla quale permettevo alla macchina teatrale di proseguire il suo delirio di finzione.

Una donna sulla quarantina passò con coraggio in mezzo al vuoto rimasto tra me e la folla; una presenza fugace, intuibile solo dal fruscio lieve della sua giacca e da quel profumo di rose e cannella.

In fondo era anche lei un’attrice come me.

Allargai platealmente le braccia verso il pubblico e iniziai.

III Frammento

Mi rimisi in cammino calpestando le foglie per terra, incurante della vita che scorreva al di sotto dei miei passi. Laggiù, laggiù oltre il bosco da qualche parte stava l’altra parte di me. O meglio tutto quello che di me avevo disperso.

Un respiro profondo. Ora o mai più.

Scattai in avanti, attivando le fibre che costituivano i miei muscoli. Sincronizzai le braccia e le gambe per facilitare l’equilibrio, dosai il respiro per mantenere le forze ed ossigenare meglio il sangue.

Correvo rapido. Spingevo il terreno sotto di me.

Il bosco era alle spalle, già lontano. Sentivo la fatica, e la affrontavo. Correvo. Dovevo arrivare dall’altra parte. Fendevo l’aria cercando di ridurre la resistenza al minimo.

Il cuore pulsava, sempre più intensamente. Ora iniziava a premere contro il petto. Ora risaliva il gusto di saliva ferrosa, ora il sudore mi pungeva gli occhi, ora il sangue impazzava nelle vene.

Io, o meglio tutto ciò che di me avevo disperso era a pochi metri di distanza.

E di colpo, repentino, un muro invisibile arrestò la mia corsa. Inevitabilmente mi schiantai. L’impatto venne assorbito dalle ossa, la maggior parte delle quali si spezzarono, si sbriciolarono. Il mio fragile corpo s’infranse, come un ramo abbattuto su una pietra. Caddi a terra, esanime. Ciò che di me avevo disperso avrebbe continuato ad attendermi troppo lontano.

Mi sveglio.

Ma non apro gli occhi, non posso. Costretto così da ormai dieci anni. Fuori nessuno sa, fuori nessuno sente. Solo ogni tanto qualcuno spera. La speranza di chi non sa accettare. Tutti recitano la loro parte, qui vicino a me. Non voglio dire che non siano sinceri, tutt’altro. E’ solo che non possono fare a meno di vivere quel ruolo, di essere coerenti alla loro parte: qualcuno è seduto con le braccia conserte, osserva il mio respiro meccanico. Qualcuno mi parla, ma non lo sento. Qualcuno ancora passeggia per la stanza e pensa, forse ricorda.

Una volta anche io ero così. Recitavo in teatro. Ero bravo, molto bravo. Mi mimetizzavo così bene che la gente non mi riconosceva più. Mostravo solo dei frammenti ma il pubblico era così persuaso dalla mia rappresentazione da credere che io fossi tale, da credere di riconoscermi in ciascuna di quelle schegge.

Allo stesso modo le persone recitano mostrando agli altri frammenti di sè e celando tutto il resto. E chi incrocia la loro strada, per più o meno tempo, non vedrà mai l’attore al completo ma solo il personaggio, costruito su una parziale messa in mostra di sè.

Lo capisco, certo. Finchè non si allarga lo sguardo, tutto può essere frainteso e la mente ingannata.

La realtà del resto è semplicemente, irrimediabilmente caleidoscopica.

Ho recitato in tanti spettacoli e ho amato gli applausi del pubblico.

Ora però mi sono perso. Così separato da me stesso da non ritrovare il punto di partenza, come un ramo caduto a terra e poi spezzato in tante parti.

Ho diviso il mio corpo e la mia mente, mi son mostrato ogni volta diverso; ora non so più se chi parla e chi pensa sia realmente io. Perso tra i miei frammenti. Nel momento in cui ho provato a liberarmi delle mie costruzioni mi sono infranto, come in corsa contro ad una barriera invisibile: i muri erano troppo alti, ed io troppo fragile.

Dite che sono in coma. Voi che non mi avete mai conosciuto realmente, giudicate solo quello che vedete, ancora una volta. Ma nonostante ciò staccate tutto questo macchinario che mi tiene in vita, non mi opporrò.

Lasciate che vi dica solo un’ultima cosa, il mio cameo prima di uscire dal palco: non siamo che schegge sparse di un caleidoscopio, e viviamo per ritrovarci ad una ad una.

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