martedì 23 dicembre 2014

semifinale - 400 metri, Francesca Faramondi

400 METRI
Francesca Faramondi

“È un tempo perfetto per vincere una gara” pensò Luca, fissando il cielo azzurro alla vana ricerca di una pur minima nube bianca.

Abbassò lo sguardo e cominciò ad analizzare la pista e l’ambiente: terreno morbido, vento leggero ma a favore, i raggi del sole forti abbastanza per scaldare, ma non per abbagliare.

Luca sorrise e cominciò a fare stretching.

Più in là un ragazzo dall’aria svogliata si apprestava a fare un salto triplo.

Assistette alla sua gara: fece un gran salto e si portò in prima posizione, eppure dal suo volto non scomparve quell’aria da soufflé sgonfiato, come l’avrebbe definita suo padre

Luca scrollò le spalle e tornò a focalizzarsi sulla sua gara.

Chiuse gli occhi e cominciò a correre.

Fece tutto il tragitto con la mente, come faceva prima di ogni competizione, per essere concentrato al cento per cento su quei 400 metri che doveva affrontare.

Innanzitutto lo scatto dei primi cento metri, poi l’allungo della parte centrale e infine lo scatto degli ultimi cento metri.

Quando fu sicuro della sua performance, si voltò per studiare gli avversari.

Con molti di loro aveva già corso più volte.

Sapeva che De Marchi era un fuoco di paglia, scattava fortissimo, ma poi mollava. Faviani era stato un campione, ma dopo l’operazione al ginocchio non era più tornato in forma come prima. Stasi e Vega erano da tenere d’occhio.

Luca però non si scompose, fece un rapido calcolo e stabilì che poteva batterli… tutti.

Lo starter li invitò a prendere posizione.

Luca fece un bel respiro.

Cominciò a sentire la tensione crescere, mentre avvertiva il suo cuore lasciare il petto e rimbalzargli nelle tempie, nelle gambe e nelle braccia, come se per l’emozione avesse dimenticato il posto che anatomicamente gli spettava.

Lo sparo.

Una scarica di adrenalina lo fece scattare come una molla.

E corse, senza più pensare a niente.

Corse, come correva da bambino sfidando suo fratello, nel prato dietro casa, quando l’arrivo era l’ultimo albero in fondo e il premio una pacca sulle spalle da parte di papà.

Corse senza sentire il tifo del pubblico, la stanchezza nelle gambe, la pressione degli avversari.

Corse e tagliò per primo il traguardo.

Medaglia d’oro…e nemmeno il tempo era male.

Alzò un braccio in segno di vittoria, cercando con lo sguardo Valentina tra gli spalti e regalando solo a lei il suo sorriso.

D’accordo, lui non era Bolt e queste non erano le Olimpiadi, ma solo delle gare regionali, eppure era felice e soddisfatto di se stesso.

In un attimo il piccolo stadio comunale gridava il suo nome.

“Luca! Luca!” la voce della folla si stava trasformando in una singola voce maschile.

“Ohi Luca?!” la voce di Emanuele.

“Che c’è?” sbottò Luca, guardandosi attorno con aria stupita.

La pista era deserta.

Quei ragazzi che correvano come schegge ormai non erano che schegge di memoria… che ironia…

Luca scosse la testa, un sorriso amaro sul volto.

“Ma che ti eri addormentato? O sognavi ad occhi aperti?” lo incalzò Emanuele.

“Ed anche se fosse… che c’è di male nel sognare?” replicò Luca stizzito, spingendo via la sua sedia a rotelle.

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