Non farsi male
Oriana Tardo
Martellava come un tamburo la penna, priva d'inchiostro, che Dalia
stringeva fra le dita, agitandola contro il tavolo. Solo quel suono
ritmato rimbombava nella stanza, come un'eco nel silenzio, come un muro o
un foglio quando è bianco. Dalia restava lì, nella sua baita di
montagna, in cerca di parole che non si confondessero con la neve.
Venivano giù come cristalli e, come
neve, si scioglievano al contatto con la carta. Parole invisibili,
parole a dissolversi. Intanto, fuori dalla finestra gli alberi, ombre
nel biancore, apparivano a Dalia come macchie d'inchiostro indistinte.
Il paesaggio fuori e lo scrittoio dentro la stanza venivano a
confondersi, giungendo come visioni distorte alla percezione di Dalia. I
confini tra dentro e fuori, tra pensiero e materia, tra sogno e
lucidità si offuscavano. Dalia rimaneva lì, nella sua baita, tre mesi
d'inverno, in cerca di calma, in cerca di calore. Ogni anno, il giorno
del suo compleanno, a novembre, si trasferiva in quel luogo di pace e di
leggerezza, rimanendovi per tre mesi. Da nove anni ormai il suo
compagno si premurava di accompagnarla, in auto, fino alla baita. La
salutava sull'uscio, sfiorandole le labbra con una carezza e le
raccomandava di non farsi male, di prendersi cura di sé, più d'una volta
le sussurrava all'orecchio: "stai attenta... non farti male".
Dalia amava isolarsi per qualche periodo, cullarsi tra sè e sè, era
l'unico modo per sentirsi al sicuro. La solitudine era l'unico luogo in
cui si sentiva protetta dai pericoli esterni. Si sentiva fragile, e lo
era davvero. Viveva con la paura di sgretolarsi, di rompersi come vetro.
Non poteva concedersi alcuna distrazione, sempre attenta ad evitare un
gesto sbagliato, un movimento istintivo delle mani, delle braccia o
delle gambe, che potesse urtare contro qualcosa, lì fuori. Un mondo
fatto di oggetti pericolosi, invisibili poiché innumerevoli. Un mondo
acuminato, ogni cosa appariva a Dalia come una lama pronta a infilzarsi
nel suo involucro fragile. Per tenersi lontana dalla paura aveva bisogno
di isolarsi, anche solo per un po', evitando il contatto con tutto ciò
che potesse colpire le sue ossa. Ossa di carta. E sulla carta amava
costruire e ricostruire altre vite, narrare di altri in carne ed ossa,
mentre guardava la sua vita in uno specchio scheggiato, i cui frammenti
restano ancora uniti, come un mosaico o un puzzle che si scompone e
ricompone. Fratture nei giochi d'infanzia, caviglie fasciate per
danzare, giorni passati su un letto d'ospedale ed altri vissuti tentando
di non farsi male.
La baita era un rifugio dove riusciva a
non farsi male. Ogni cosa era rivestita di spugna affinchè quel piccolo
mondo esterno fosse morbido e sicuro, c'erano cuscini in ogni angolo
della stanza, l'intero pavimento era coperto di tappeti. Lo scrittoio in
legno era l'unico oggetto non rivestito di spugna e potenzialmente
pericoloso, cui Dalia faceva però molta attenzione. Lì scriveva, sedendo
su una comoda poltrona.
Stringeva la penna fra le dita, in attesa
di parole da ordinare, da intrecciare in una trama leggera e scorrevole,
una trama che non si spezzasse, come le sue ossa, solo perché via via
si consumava l'inchiostro. Le parole sulla carta divenivano invisibili,
dalla penna non scorreva più inchiostro, ma lei continuava a scrivere,
senza vederle continuava a inciderle sulla carta. Via via premeva più
forte sul foglio, fino a traforarlo, le parole si scolpirono sul legno,
oltrepassando la carta. Solo allora, quando il foglio fu ridotto a
brandelli, Dalia si rese conto di aver inciso parole sul tavolo.
D'istinto gettò carta e penna, come se qualcosa, una voce interiore, le
suggerisse chiaramente cosa fare, l'incisione sullo scrittoio la destò e
fu come illuminata dalla presa di coscienza. Pensò di scolpire le
storie che amava inventare. Anzi, nemmeno più storie pensava di narrare,
ma scolpire frammenti, brevi pensieri, aperti ad ogni libera
interpretazione. Non doveva più nascondersi dietro altre storie, altre
vite sognate, era giunto il momento di ricostruire la sua vita, nè carta
nè penna potevano esserne gli strumenti. Come rune, i suoi frammenti di
vita erano simboli da scolpire su altrettanti frammenti, sassi, schegge
di vetro come di osso, di quarzo, come cristalli.
La runa bianca
del destino, la runa della protezione, la runa del tasso a rappresentare
la resistenza, la runa del ghiaccio o dell' isolamento, le rune
dell'acqua e del sole, energie vitali, la runa del risveglio.
Dalia
cominciava a scontrarsi coi propri ricordi senza farsi male,
ricostruendo le sue fratture come simboli della sua malattia, una rara
malattia genetica, chiamata osteogenesi imperfetta, che rendeva le sue
ossa fragili, pronte a rompersi come schegge. Dalia venne al mondo con
fratture spontanee alle braccia, non le fu concessa la cosa più preziosa
dell'infanzia... giocare non era affatto una cosa semplice e spontanea,
giocare, come tutti gli altri bambini, le provocava ripetute fratture.
Eppure, non volle mai isolarsi in una campana di vetro, ma restare nel
mondo, il mondo delle cose, come uno specchio scheggiato che non cede,
mai cade. Pezzi disgiunti e ricongiunti per rimanere in piedi,
accogliendo la vita. Solo più tardi, in età adulta, Dalia cominciò a
nutrire un più forte bisogno di sentirsi al sicuro, di cercare una baita
tutta per sé per evitare di farsi male, per la paura di invecchiare ed
essere sempre più fragile.
Lo specchio scheggiato era lì,
appeso ad una parete, Dalia lo colpì, lanciandogli contro un pestello di
marmo, e le schegge esplosero nell'aria prima di cadere a suon di fata.
Raccolse poi i frammenti dal pavimento, ordinandoli l'uno accanto
all'altro, e con una lama cominciò ad incidere su ogni scheggia un
simbolo, un numero o una lettera dell'alfabeto che rappresentassero i
momenti vissuti con gioia, quando per un attimo dimenticava le sue ossa
fragili e si teneva stretta in un abbraccio sicuro. Solo allora,
riordinando quei frammenti, comprese che il mondo fuori non era solo il
mondo delle cose, fatto di pericoli, c'era anche un altro mondo che non
era riuscita a vedere prima, qualcosa che non si lasciava rompere. Un
luogo sicuro dove non farsi male non era più la solitudine ma l'amore...
l'amore che riceveva dagli altri e quello che sapeva donare loro,
senza mai esserne consapevole. L'amore non è mai stato fragile come le
sue ossa, è un flusso di schegge d'infinito che congiungono alla vita.
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