martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Princesse, Claudia Aprea


Princesse
Claudia Aprea

Alla mia carissima aspirante dottoressa Simona;
alla mia compagnia teatrale, per la fiducia e la gentilezza dimostratemi;
e, come sempre, a voi splendidi lettori…


“Ma l’amore, per me, non è nient’altro che un materasso d’aghi su
cui dare da bere a queste femmine crudeli.”
(Charles Baudelaire)

Oh deliziosa creatura demoniaca, ti avevo spiato amorevolmente quando con meticolosa malizia imbellettavi il volto, agghindandoti per l’ennesimo spettacolo. I tuoi occhi erano sormontati da fitte pennellate di ombretto, le gote purpuree erano ombreggiate dalle ciglia elegantemente curvate come petali. Tu proiettavi la tua immagine allo specchio, che, avido della tua bellezza sfacciata, aveva intrappolato la tua figura: gli occhi sembravano fornaci ardenti, il volto illuminato da un’ostentata vanità. Io, osservandoti cautamente, ammiravo i tuoi capelli inanellati e vaporosi, che placidamente ti accarezzavano la schiena; adoravo i tuoi occhi vanesi e scuri, così dannatamente ipnotici, che mi avevano guardato con desiderio struggente, come se avessero voluto trascinarmi verso il baratro infernale.
E così, soggiogato dalla tua bellezza dannata, mi perdevo tra gli abissi d’ombra e i fasci di luce.

Anche quella sera cantasti, Princesse.
La tua voce era flautata, il tuo canto sembrava conformarsi all’armoniosità dei tuoi lineamenti, si espandeva all’interno del locale e raggiungeva i nostri cuori sopiti, riscaldandoli dal gelo dell’inverno.
La tua voce mi aveva ammaliato sin dal nostro primo, interminabile gioco di sguardi.
Eri stata la prima persona con la quale avevo instaurato un legame (sempre se il nostro poteva definirsi legame) da quando soggiornavo a Parigi. Animato dalla speranza di ritrovare l’ispirazione perduta, avevo abbandonato il mio Paese per trasferirmi nella capitale francese, affascinato dall’allegra aria bohémienne che imperversava; ma la vivacità fasulla ed artefatta mi aveva profondamente deluso.
Mentre sorseggiavo il cognac, osservavo il tuo abito rosso attraverso il vetro spesso del bicchiere: la profonda scollatura a “V” metteva in risalto il tuo seno piccolo e sodo; le balze della gonna sembravano farfalle che viravano l’aria, ondeggiando ad ogni movimento. Avevi raccolto i ricci in uno chignon impreziosito di perline e lustrini, che scintillavano come stelline al pallore della luce aranciata dei lampadari.
Ad un tratto -come spesso accadeva- mostrasti il tuo vero, terribile aspetto.
Quell’aspetto che mi aveva sedotto e terrificato al tempo stesso…
Tutto apparve sfocato e privo di contorni, come nubi amorfe: il tuo canto esplodeva in una risata satanica, lunghe corna spuntavano tra i tuoi capelli e un’orripilante lingua biforcuta fuoriusciva dalle tue labbra sanguigne; spirali di fuoco attorniavano la tua persona, carezzandoti come fa una mamma col proprio bambino.
Sebbene il tuo aspetto fosse sensualmente demoniaco, io ti osservavo come se tu fossi stata una benevola apparizione divina: non riuscivo a puntare altrove lo sguardo, totalmente assorbito dai tuoi occhi e incantato dalle voce di miele, come se avessi voluto risucchiarmi l’anima.
Ero come una barca alla deriva: sballottata dalle onde ma che tentava disperatamente di non affondare, di rimanere a galla malgrado le intemperie.
Le ultime parole della canzone si spensero, un applauso rimbombò tra le mura del locale.
Tu –inebriata dalla tua gloria malvagia- sorridesti leziosa, scoprendo i denti nivei che contrastavano col rosso fuoco delle labbra.
Scombussolato, scossi il capo, posando gli occhi sul parquet del pavimento, non ancora del tutto libero del maleficio.
Il tuo sguardo vagava tra la folla, tra quel pubblico che pronunciava il tuo nome, acclamandoti, paragonando la tua bellezza esotica ad una divinità greca. Incondizionatamente incontrasti i miei spenti occhi verdi, e sorridesti. Non era il tuo solito sorrisetto civettuolo, che regalavi a qualsiasi uomo ti guardasse. Ma era un sorriso complice e sincero.
Tu abbandonasti la folla in tumulto, allontanandoti verso le camere dove svolgevi il tuo vero lavoro: vendevi il corpo per soldi.
Io ti seguii, come di consuetudine, pronto a scivolare nel pozzo senza fine dei tuoi occhi.

Oh angelo della seduzione,
bruciamo all’inferno!

Rimasi a fissarti per un attimo, non appena richiusi la porta. Eri bellissima, la finestra incorniciava il tuo capo e i raggi lunari baciavano i tuoi capelli, donandoti un’aria oscura e spettrale, ma soprattutto attraente. Tu eri una creatura irraggiungibile e sovrumana ma al tempo stesso tangibile e vera; un essere ignoto. E tutto ciò che era oscuro e celato mi aveva da sempre attratto.
“Cosa succede? Non ti piaccio?” domandasti, afferrando un lembo dell’abito e piroettando, come per mettere in mostra la tua grazia. Così facendo, mi allontanasti dai pensieri che si erano affollati nella mia mente.
Avvolsi una mano intorno al tuo esile polso, spingendoti verso me, e prontamente aggredii le tue labbra. Quelle bellissime labbra dalle quali era scivolato il canto armonioso.
Ma il desiderio di possederti era irrefrenabile, quel banale scambio di baci doveva terminare. Impaziente, ti scagliai sul letto, dove il raso rosso inguainava i cuscini e il materasso, e sembrava estendersi fino alle pareti color carminio. Tutto trasudava sangue e passione.
Ed io mi stesi accanto a te, desideroso di ammirarti inerme e senza protezioni…

“Jakob” borbottasti spazientita, mentre scioglievo la crocchia ed una cascata di ricci indomabili pioveva innanzi al tuo volto.
“Jakob” sussurrasti mentre assecondavi ogni mio gesto, lasciandoti trasportare dalla passione che, impetuosa, si diramava in te.
“Jakob” mugolasti mentre assaporavo ogni centimetro della tua pelle.
“Jakob” ridesti scherzosamente, mentre il mio indice affondava nell’incavo delle vertebre, stuzzicandole, una ad una. Nulla vi era di più bello della tua schiena nuda e liscia, levigata come una pietra; adoravo percepire i brividi che l’attraversavano, derivati dall’eccitazione che ti procuravo.
“Jakob” gemesti, mia cara Princesse, mentre danzavo con passione su di te, raggiungendo l’apice del piacere.

Ma il destino (quell’insopportabile burlone che mi aveva concesso di incontrarti) si era stancato dei nostri amplessi feroci, decidendo di spezzare quel filo, già teso, che ci univa. Anche la sorte era stata stregata dal tuo canto, dalla tua bellezza e dalla tua civetteria: desiderava ghermirti la vita ed averti per sé.
E accadde, il destino riuscì nel suo intento.
Visto il lavoro precario che svolgevi, avevi contratto un male incurabile, che deturpò la tua bellezza florida, chiazzandoti la pelle con segni che sarebbero rimasti indelebili sul tuo corpo e nella mia mente. E, quando esalasti l’ultimo respiro, mi donasti uno di quei sorrisi che solo io avevo il privilegio di osservare.
Un liquido sguardo di velluto e la luce che brillava nei tuoi occhi si spense per sempre, mia bella Princesse. E mi trafiggesti come soltanto coltelli affilati avrebbero potuto fare.

Malgrado fossi morta, mi recavo tutte le sere in quel locale, dove sorrisi untuosi e tetri come maschere greche, risa sguaiate e fragorose –perlopiù causate dall’ebbrezza- e il grigiore nebbioso del tabacco si mescolavano in un infernale caleidoscopio di gioiosa ipocrisia.
Ed io, inondato dalla perdizione, ti vedevo ancora sorridere e cantare sul palcoscenico della vita, aspettando che ti portassi via dallo squallore della tua esistenza.
Sarei per sempre rimasto invischiato alla tua tela. Per sempre.

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