martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Una luce nuova, Viviana Cardone

Una luce nuova
Viviana Cardone

Un altro incubo. L’ennesimo. Un’altra sbornia, questa volta più pesante, le annebbiava la vista. Ancora un’altra volta quell’insopportabile disgusto per se stessa e per un’altra notte trascorsa in un letto freddo ed estraneo. Un letto che apparteneva a nessuno eppure a tutti: a tutti quelli che vi si erano rifugiati, per rubare alla vita qualche ora lontana dal rumore del mondo, magari in compagnia di un amore proibito, di un amore incompreso o semplicemente di un amore. Quel letto adesso ospitava Ania che, tra candide lenzuola di pizzo, aveva venduto il suo corpo e il suo spirito, di certo non per amore. Per compiacere invece uomini, come quello che l’aveva appena lasciata sola e a cui aveva permesso di violarla ancora. Uomini che bramavano solo appagare la perversione dei loro animi, frustrati ed incapaci di amare. Quegli uomini che avevano calpestato senza scrupoli, con piedi pesanti e sporchi il suo cuore acerbo di adolescente smarrita. Non era più sicura Ania, come lo era stata diversi mesi prima, di poter controllare tutto. Aveva tristemente scoperto che non era vero che avrebbe potuto fermarsi quando voleva. L’adrenalinica sensazione di sentirsi forte, importante, capace di dominare e piegare un uomo, anche solo per una notte, era svanita. Non aveva più alcun valore adesso, tutto quel denaro ch’ella aveva creduto capace di renderla sicura e di sotterrare quella fragilità, che per anni, l’aveva fatta sentire inadeguata tra i banchi di scuola. Un senso di vuoto adesso dilaniava la sua anima. Odiava se stessa e quelle persone che avevano distrutto i suoi sogni, rendendola cinica, disillusa e arida. Non ricordava nemmeno più come fosse cominciata quella repentina discesa verso l’inferno. Ne sentiva però, tutta la fatica nelle gambe esili e brune, che aveva concesso di profanare, nelle braccia lisce con cui sapeva avvolgere i suoi carnefici. E ancora nella testa che pulsava di dolore e nel cuore indurito dal peccato. Il pensiero di farla finita era ossessivo e la tentava da un po’ di tempo. Si fermò ad osservare i calici di cristallo sul comodino, con i quali durante la trascorsa notte aveva affondato nell’alcool i residui di dignità che ancora provava. Aveva bevuto champagne di altissima qualità offertole dal cliente per “festeggiare” la sua promozione, in realtà per rendere più accettabile, a se stesso e alla ragazza, l’oltraggio che di lì a poco si sarebbe consumato. Ania afferrò furiosamente quei bicchieri e con tutto l’odio e il disprezzo che nutriva per la sua vita, li scagliò contro il pavimento frantumandoli in mille pezzi, come se distruggerli avesse significato cancellare le tracce di ciò che era successo. Stette, ancora un altro lungo minuto, ferma a guardare quelle schegge di cristallo sparse a terra, che curiosamente somigliavano a delle stelle. Come stelle splendevano, ma non di luce propria. Candidi raggi di sole filtrati dalla finestra precipitavano su quei frammenti come fulmini, e si rifrangevano, scomponendo la luce in mille colori che accendevano la stanza. Ania allora, pensò al cielo e si domandò dove sarebbe andata, dopo la morte. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi una volta giunta al cospetto del Creatore? Costui l’avrebbe punita? Perdonata? Biasimata? O magari non c’era proprio nulla dopo la morte. Chi poteva dirlo con certezza? Tuttavia, ciò che le premeva adesso era sparire, smettere di vivere, soffocare quell’esistenza senza gioie, corrotta, macchiata e inutile. Si diresse verso la finestra e si affacciò. Il suo sguardo si perse nel vuoto. Per lunghi istanti tutto, intorno a sé, sembrò tacere. Solo il silenzio: l’assordante silenzio della sua anima. Il cuore ansimava per uscire dal petto. “Solo un salto”, pensò. “E sarà finita, per sempre”. Le mani madide di un sudore pesante come il piombo facevano fatica a stringere il parapetto. Una spinta, poi un tonfo. Due, tre minuti di agonia prima della fine. Immaginava, programmava, simulava. Nella sua mente la scena si ripeteva a rallentatore in un realismo tale da farle credere di averlo già fatto. Intanto era ancora lì, affacciata alla ringhiera. Poi una voce riuscì a distoglierla dalla sua catalessi. Dalla strada, un bambino richiamò la sua attenzione, le faceva cenni con la manina e le rivolgeva sorrisi carichi di gioia e purezza. Quella purezza che credeva di aver perduto irreversibilmente e che per riaverla avrebbe dato la vita, appunto. Il sole incandescente di agosto che illuminava il suo viso, ricoperto dal rimmel sciolto che scorreva ancora sugli zigomi, le impediva di tenere aperti gli occhi ancora arrossati dal pianto. E quando riuscì a riaprirli, fissò il cielo e l’intenso pigmento nocciola dei suoi occhi rifletté quei raggi che per un attimo li colorarono di giallo grano. Quello scontro provocò una luce nuova, una luce rigenerante. Ania avvertì infatti, una sensazione dì conforto pervaderle la schiena. Quei raggi, chissà perché, adesso le infondevano rassicurazione, coraggio, perdono. Cominciò a desiderare di risalire in superficie, farsi trasportare da quei raggi di speranza e raggiungere il sole. Iniziò a maturare la consapevolezza che morire non sarebbe stata la soluzione, sarebbe stata invece un’altra dimostrazione della sua fragilità, della sua inadeguatezza. Un altro fallimento, questa volta irrimediabile. Forse invece, la sorte avrebbe potuto riservarle qualcosa di bello, di puro, come il sorriso di quel bambino. In fondo aveva tutta una vita davanti a sé. Perché non crederci? Sapeva che sarebbe stato difficile dimenticare, e ritornare a sorridere. La vergogna che provava per se stessa non sarebbe svanita così presto, così come l’odio e la diffidenza verso gli uomini. Ma avrebbe ricominciato tutto daccapo. Rientrò in camera e calpestò coi piedi nudi le schegge splendenti. Notò che non facevano poi così male. “Schegge di luce” pensò, ritrovandosi a far sbocciare un timido sorriso. E splendendo, insieme alle sue schegge di luce, prese il telefono. Le dita tremanti composero in fretta un numero, conosciuto a memoria, ma non digitato da tempo. Tre squilli. Un minuto in silenzio, poi un respiro di sollievo. Infine, con la voce rotta dalla commozione e con la voglia di rinascere che le pulsava nelle vene, riuscì finalmente a rispondere “Mamma…?”.

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