martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Walter, Francesco Piscitelli

WALTER
Francesco Piscitelli


La luce esterna filtrava attraverso il vetro verde smerigliato della porta, illuminando una mensola sulla quale erano poggiati un distillatore in rame ormai ossidato e una lente d’ingrandimento scheggiata. Delle boccette trasparenti erano ordinate secondo il livello di riempimento. Tra polveri e liquidi si poteva notare un barattolo pieno di piccole pietre traslucide di diverso colore e dai bordi irregolari. La più grande non superava le dimensioni di una capocchia di spillo. Accanto la mensola, su due ganci di ferro erano appesi una giacca di tweed consumata all’altezza dei gomiti e un berretto da newsboy.

Un gatto tigrato era acciambellato con gli occhi chiusi sul bancone color mogano. Muoveva le orecchie per cogliere le voci provenienti dal retrobottega, dove dietro una pesante tenda di panno si udiva parlare.

“Professore, l’operazione farà male?” chiese un ragazzo steso su una poltrona odontoiatrica. Le dita nodose stropicciavano un fazzoletto sudicio.

“Nient’affatto, Walter. Sentirai solo qualche ronzio e una lieve vibrazione” rispose il professore. Parlava tenendo tra le mani uno strano marchingegno che dall’aspetto ricordava un cavatappi con delle zampe a ventosa. Una manovella era collegata a degli ingranaggi di ottone dalla funzione ignota.

“È sicuro che questo mi aiuterà con i miei ricordi?” chiese il ragazzo mentre osservava l’inusitato oggetto inarcando un sopracciglio. Si tamponò col fazzoletto una goccia di sudore che da una tempia gli stava scendendo lungo il viso.

“Al cento per cento. Ora chiudi gli occhi e fai ampi respiri spingendo in basso il diaframma. Quando ti sentirai pronto potrai iniziare a raccontare. In questo modo la scheggia sarà più visibile e potremo rimuoverla con facilità” disse con sicurezza. Gli occhi nelle orbite profonde e scavate avevano uno sguardo sereno.

Walter tirò su col naso e si apprestò a rilassarsi. Trascorse un buon quarto d’ora prima che il respiro da forzato e controllato si facesse più fluido e profondo. Nel frattempo il professore aveva sistemato il marchingegno sul padiglione auricolare del ragazzo e vi guardava all’interno attraverso una piccola lente.

“Immagina di essere su una locomotiva che va all’indietro nel tempo sempre più veloce fino a portarti al tuo ricordo. Dove ti trovi?”

“Sono nella fattoria di mio padre. Ho 8 anni”

“Cosa stai facendo?”

“Sto piangendo. Dobbiamo trasferirci, mio padre ha il tifo e non riusciamo più a gestirla”

“Cosa è successo dopo aver lasciato la fattoria?”

“Ho lavorato. Vendevo giornali per aiutare la mia famiglia e poter andare a scuola. Non avevo tempo per gli amici, perché quando non ero in classe ero in strada. Passavo lunghe ore da solo in un angolo del marciapiede”

“Come trascorrevi quei momenti?”

“Immaginavo. Non avevo libri o quaderni da disegno, così vivevo avventure che mi costruivo nella mente. All’inizio erano semplici fantasticherie, poi cominciai a inventare delle vere storie con dei personaggi di fantasia. Il mio preferito tra essi era un piccolo topo”

“Le rammenti ancora?”

“Sì, anche dopo dieci anni. Insieme alla solitudine è ciò che mi è rimasto di quel periodo”

“Hai mai pensato di trascriverle e farle vedere a qualcuno?”

“E perché mai avrei dovuto farlo?”

“Quel bambino che soffriva ha bisogno di esprimersi e lasciar uscire all’esterno le proprie emozioni. E potrà dare l’opportunità a chi non ha la stessa immaginazione di poter vivere le avventure che ha sempre desiderato”

“Non credo di esserne capace”

“Se l’hai immaginato sarai anche in grado di raccontarlo. E avrai dato un senso alle tue angosce”.

Il ragazzo tacque. Una lacrima gli spuntò da un angolo dell’occhio. Il marchingegno si era intanto bloccato.

“Apri gli occhi” disse il professore.

“Abbiamo finito?” esclamò il ragazzo, guardandosi intorno.

“Proprio così. Guarda: un bel blu cobalto” fiero di sé, il professore parlava roteando tra i polpastrelli un piccolo pezzo di vetro appena sganciato dalla punta del marchingegno. Il ragazzo osservava stupito mentre con una mano si tastava dietro l’orecchio.

“Ora che ne abbiamo eliminato la componente negativa, i tuoi ricordi non ti tormenteranno più. Come ti senti, Walter?”

“Come se la testa si fosse svuotata. Fa molto strano”

“Ti ci abituerai. Per i primi giorni, prenditi dei momenti in cui stare tranquillo respirando come abbiamo fatto. Questo eviterà il formarsi di un nuovo frammento nello spazio che abbiamo lasciato vuoto. Lascia stare, non mi devi nulla” bloccò, con un cenno di diniego, il ragazzo che rovistava nelle tasche dei logori pantaloni in cerca di monete.

“E poi il merito è del gatto – proseguì – È stato lui a suggerirmi questa tecnica”.

“Oh, ne sono certo” rispose ironico il ragazzo, con lo sguardo rivolto verso l’alto.

“È così. Ringrazia lui” il professore indicò l’animale, che aprì gli occhi in una sottile fessura come a osservare la scena.

“Vedo che è impossibile farle cambiare idea ed evitare che mi prenda in giro. Allora io la ringrazio signor gatto, le sarò sempre molto grato” disse con un teatrale inchino.

“Professore, rifletterò su ciò che mi ha detto: com’era? Se puoi sognarlo puoi anche farlo?”

“Proprio così, Walter”

“Mi chiami Walt!” gridò il ragazzo mentre abbandonava la bottega.

Rimasto solo, il professore tolse gli occhiali e sospirò.

“Chissà perché, Baron, hanno tutti la stessa reazione quando dico che l’idea è stata tua” disse rivolto al gatto, intento a leccarsi una zampa.

“Magari perché non hanno mai visto un gatto avere idee” replicò il felino.

“Quanto credi potrà durare prima che qualcuno si accorga che nella testa delle persone non ci sono delle schegge di vetro?”

“Fin quando le persone crederanno che li possa far star meglio. Gli esseri umani non si interrogano su cosa sia verità e cosa sia finzione, se questo può portar loro beneficio. Credo che voi la chiamiate fede. In fondo, tu non trovi affatto strano che io ti stia parlando”.

“Hai proprio ragione, vecchio mio. Come sempre”

“Ovvio. Sono un gatto, mi distinguo per l’acume”

“Ma non per la modestia” esclamò il professore, ridendo.

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