martedì 23 dicembre 2014

semifinale - Eravamo solo dei Mulas, Alessandra Bertini

Eravamo solo dei mulas
                                     Alessandra Bertini


Avevo undici anni quando sono entrato nelle schegge. Cercavano giovani veloci e furbi per consegne a domicilio, sull’annuncio c’era scritto compenso eccezionale.
Papà era morto da circa un anno in un incidente stradale, non si è mai saputo bene come fosse andata veramente, la versione ufficiale fu un colpo di sonno, ma su quel tratto di strada per Tijuana, quel giorno ci fu un gran casino, ed io non mi tolgo dalla testa che a sbattere contro quell’albero ce lo abbiano mandato.
Mamma non lavorava e senza lo stipendio di papà ogni giorno rischiavamo il digiuno, così non c’ho pensato due volte a calarmi nello stomaco una decina di ovuli gonfi di cocaina. Questa fu la mia prima consegna a domicilio ed entrare nelle schegge voleva dire, diventare un corriere della droga.
Il sistema era collaudato da molto prima del mio arrivo, ormai la nuova frontiera del narcotraffico eravamo noi giovani ragazzini affamati e quindi disposti a tutto, utilissimi ai signori della droga per essere sguinzagliati in quantità abbondante verso la frontiera con gli Stati Uniti. Più eravamo giovani, svelti e numerosi, meno probabilità c’erano che ci beccassero alla dogana, e in ogni caso, anche ci avessero scoperti, meglio noi che loro.
Ad entrare ci ho messo il tempo di un sì fatto con un cenno della testa ad un tizio dall’aspetto poco raccomandabile, appoggiato ad un lampione. Senza aprire bocca mi fece segno di salire su un'auto scura parcheggiata lì vicino, dentro c’era il mio capo: El Chapo

«Allora, ragazzo, come ti chiami?»
«Héctor» risposi
«Conosci le schegge?»
«No»
«Da adesso sei una di loro, uno dei miei uomini di fiducia. Posso fidarmi di te?»
«…»
«Essere una scheggia vuol dire coraggio, scaltrezza, velocità di pensiero e azione. Non sono abilità che tutti hanno, ma solo chi le possiede, dammi retta, conta qualcosa. Pensi di avercele?»
«…»
«Ce le hai sì o no?»

Dissi di sì non per convinzione, ma per paura. Mi dette una pacca sulla spalla e un sacchettino di ovetti bianchi. Dovevo portarli a San Diego, dentro lo stomaco.
Presi il sacchetto in mano e rimasi per qualche istante immobile a fissarlo, giusto il tempo perché El Chapo si accorgesse della mia titubanza.

«Tieni, bevi questo prima di mandarle giù, anestetizza la gola ed evita di farti vomitare. È roba delicata, sbagliare non è consentito. Per tutto il viaggio ricorda di non bere o mangiare, vorrai mica che ti esplodano tutte e dieci in pancia?»

Finì con una fragorosa risata e una spinta, più o meno amichevole, per mandarmi fuori dall’auto. Ero anch’io una scheggia, adesso.

Per quanto vivere nella mia città e ancora di più la morte di un padre, ti facciano crescere in fretta, la mia giovinezza terminò esattamente nel momento in cui riuscii a mandar giù l’ultimo ovulo e mi misi in viaggio. Il liquido che mi aveva dato El Chapo, non solo fu un utile lubrificante per la gola ma ancora di più per la mente. Con andamento esponenzialmente inverso salì la sbornia e scese la paura, di essere preso, ma ancora di più, di rimanerci secco.
Seguii alla lettera le indicazioni che mi avevano dato e andò tutto meravigliosamente bene: i controlli all’aeroporto, alla dogana, l’incontro con l’altro corriere e pure l’espulsione. Così ho cominciato a sentirmi un gran figo, peggio ancora un figo con i soldi in tasca. Si arriva a fare i corrieri della droga per fame e si finisce per provarci gusto: nello sfidare la legge, quella dello stato e quella divina, oltre al fatto, ben più risaputo, che quando tocchi la droga difficilmente puoi smettere. Per arrivare a sentirsi invincibili il passo è breve, finché qualcosa non va storto e ti rendi conto che non ti chiamano scheggia per la velocità e la scaltrezza ma per l’insignificanza e la precarietà di chi, come noi, al futuro spesso non ci arriva e conta quanto un misero frammento di legno.
Ho cominciato a capirlo quando ho visto morirmi accanto Alfredo. Eravamo in missione insieme, stessa tratta verso San Diego. Poco dopo l’uscita dall’aeroporto ha iniziato a dire che gli faceva male lo stomaco, mi ha guardato con il terrore negli occhi, conosceva perfettamente cosa stava succedendo, qualche ovulo, aggredito dai succhi gastrici, doveva essersi rotto. Si è accasciato a terra, si è dimenato per un po’ e poi è svenuto. Sapevo benissimo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto ma sono scappato lo stesso per paura di essere preso. Ho proseguito la mia missione, consegnato la merce e sono tornato a casa con la paga, come se niente fosse successo, come se Alfredo non fosse morto.
Poi la notte ho sognato quegli occhi colmi di paura che mi fissavano. Non ricordo se è successo anche nella realtà, ma di sicuro in sogno l’ho sentito piangere e chiamare la mamma. Mi tendeva la mano come a chiedermi aiuto e più ci provava, più io mi allontanavo, fino a sparire dalla scena del sogno, dove restava Alfredo, solo, gli occhi aperti ma senza vita.
Oltre a me nessuno della banda ha mai perso tempo nel ricordarlo, nel dispiacersi della sua fine, tutt’al più ho sentito qualcuno lamentarsi del brutto casino in cui la perdita, non della sua vita, ma della partita di droga, ci aveva cacciati. Io invece ho continuato a vedere Alfredo in sogno per un numero di notti di cui non riesco a tenere il conto. Fino a quando, alla dogana, mi hanno arrestato.
Una delle prime cose che ti insegnano quando entri nelle schegge, è quella di non parlare, non fare nomi, solo tacere perché tanto verranno loro a salvarti dalla prigione, e invece se fai la spia la paghi gara. Così la tua bocca resta serrata di fronte alle domande della polizia, anche di fronte ai ceffoni e ai modi poco garbati che piacciono tanto agli uomini in divisa. Aspetti che la banda venga ad aiutarti, ma non ci pensano proprio, anzi si sono già dimenticati di te e ti hanno sostituito con un altro ragazzino. Una nuova giovane bestia da soma, perché in fondo non siamo altro che mulas carichi di immondizia, schiavi di un sistema che ci prende per fame, bidoni umani di spazzatura. Altro che schegge.

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