lunedì 27 ottobre 2014

provini - Un risveglio movimentato, Alessandro Zampini (Antony Grip)


               Un risveglio movimentato
                                        Anthony Grip



L'aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l'aria ancora frizzante della notte. «E’ ora di muoversi», disse, poi, come se avesse realizzato qualcosa in quel momento, si sollevò di scatto: «No! No, no, no! Non è possibile! Un’altra volta!»

Con gli occhi ormai sgranati, iniziò a guardarsi attorno aggredita da una sensazione di panico crescente. Il torpore della notte era passato come uno schiaffo da parte della persona amata che lascia un livido blu sulla guancia e un senso di frustrazione e sgomento nel cuore. Elena rovistò sotto le lenzuola, sotto il cuscino, sotto se stessa: niente.

«Dov’è? Dannazione!»

Si buttò giù dal letto e ci guardò sotto. Niente!

La sua testa sbucò da bordo del materasso e il suo sguardo smarrito si illuminò di un’intuizione. Sollevò e rovesciò il materasso e finalmente lo vide.

Prese il braccialetto e lesse il display:


02:12:23:45


«Cazzo!», aveva dormito troppo e sprecato ben 11 ore, 38 minuti e 15 secondi. Doveva sbrigarsi o ne avrebbe perso un altro.

L’ultima volta fu abbastanza disgustoso e non aveva intenzione di ripetere l’esperienza (senza contare la ramanzina che le avrebbe propinato il capo… un’altra…).

Cercò in fretta le mutandine. Niente da fare.

Dopo tre secondi pensò che in fondo poteva anche farne a meno. Ma perché doveva essere sempre tutto così difficile!

S’infilò i jeans che trovò nel bocchettone dell’aria condizionata posto in alto, sul muro, e una maglietta degli Antrax che scovò nel freezer: «Ale, sei un bastardo!» esclamò quando se la infilò. I capezzoli le si inturgidirono talmente tanto che temette che avrebbero bucato la stoffa.

Si catapultò verso la porta e si appese alla maniglia che non ne volle sapere di girare. Troppo facile…

Sbuffò e diede una rapida occhiata alla stanza: ma in che topaia era finita stavolta? La porta del bagno sulla destra era aperta lasciando intravedere il cesso incrostato e la tenda ammuffita della doccia.

Si guardò i piedi: «E le scarpe?» chiese, come se qualcuno la stesse osservando.

Non ottenne risposta, ma dietro le tenda della doccia vide sbucare la punta di una scarpetta da ballerina. Prese in mano i nastrini e gridò: «E cosa dovrei farmene di queste!?»

Nessuna risposta.

«Fanculo!» se le infilò in fretta. Frantumò qualsiasi record di imprecazioni nei tre minuti che impiegò ad allacciarsi i nastri e si rimise in piedi.

In alto! Vide l’ombra di una chiave oscurare parzialmente la luce della lampadina, celata dalla grezza struttura di vetro smerigliato del lampadario. Senza andare troppo per il sottile vi si appese tirando giù anche parte dell’intonaco. Si precipitò verso la porta, infilò la chiave ed aprì.

Finalmente fuori… nel corridoio: «Eddai però!» protestò la ragazza allargando le braccia.

A destra, in fondo (molto in fondo) intravide, nella penombra, una rampa di scale che scendeva. Vi si diresse di corsa sfoderando tutta la resistenza offerta dalle scarpette da ballerina.

Giunta alle scale scese la prima rampa con un unico balzo: dieci gradini.

Atterrò scivolando, rischiando di giocarsi le caviglie. Afferrò la balaustra, scese due gradini della seconda rampa e si diede un altro slancio.

Aveva tre giorni per trovare il “ladro di vita”. Tre giorni per seguire indizi, rintracciare (ed interrogare) informatori non sempre collaborativi ed annichilire il furfante a lei assegnato, prima che accumulasse troppi anni per essere ucciso. Alcuni suoi colleghi avevano dovuto attraversare mezza Europa per scovarne uno e lei aveva sprecato quasi dodici ore a dormire. Stavolta il capo le avrebbe fatto il culo se avesse fallito!

Terza rampa, quarta, quinta. Davanti alla sesta protestò: «Ancora!? Ma quante sono?»

“Altre due” è la risposta.

Giunta al piano terra si imbatté in una vecchia oscenamente obesa che, armata di borse della spesa grosse come due valige, ostruiva il passaggio tra le scale e il portone del palazzo.

Elena fece un veloce gioco di piedi e si spalmò contro il muro lercio nel tentativo di passare, ma la cicciona sembrava che chiudesse tutti i passaggi di proposito: «Signora, ma insomma!»

L’altra sbuffò come una locomotiva e, a fatica, si mise di profilo nel tentativo di lasciare un passaggio tra lei e il muro e lasciare passare la maleducata signorina.

Elena si gettò in quel pertugio e sentì la puzza d’aglio emanata dalla pelle della donna quando le si strusciò contro. Per un secondo temette di essere rimasta incastrata quando il braccio sinistro fu fagocitato dalla flaccida massa grassa della donna, ma con un ultimo sforzo riuscì a sgusciare via dalla stretta viscida.

Si precipitò in strada e l’ultima cosa che vide in quella città fu il muso di un furgone che le si piantava in faccia.


Stizzita si strappò di dosso il casco della realtà virtuale: «Vaffanculo!», di questo passo non sarebbe mai diventata un “Guardiana del Tempo”.

Alex, il controller della missione di addestramento, la osservava con un sorriso compiaciuto, il suo compito era rendere la vita impossibile alle reclute nel corso degli addestramenti virtuali ed incasinare le missioni fino al limite: era il suo lavoro e lo faceva dannatamente bene!

Elena si alzò dalla poltrona strappando i sensori collegati alla tuta da addestramento e si diresse verso Alex, risoluta.

Le luci al neon del laboratorio le ferivano gli occhi. La stanza bianca ed asettica era popolata da tecnici e personale sanitario che cercarono di fermarla, mentre Alex, tranquillo, giocherellava con una penna biro e faceva scendere e risalire lo schienale della sedia con un sorriso divertito stampato in faccia, come un bambino su un’altalena.

«Recluta Elena Scacchi. Nel mio ufficio. Adesso!»

Alena guardò in alto, verso le vetrate che circondavano il perimetro del laboratorio dieci metri sopra e vide un’ombra che si stagliava lassù, autoritaria ed intransigente. L’aveva convocata con nome e cognome: stavolta il capo doveva essere veramente incazzato.



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