lunedì 27 ottobre 2014

provini - Larve umane, Gianluca Ingaramo

Larve Umane
Gianluca Ingaramo


L'aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l'aria ancora frizzante della notte. «È ora di muoversi», disse.

Quattro semplici parole, il sunto di una decisione presa. Fissai per un attimo la mano che mi porgeva per aiutare a rialzarmi. Come se questo fosse ancora possibile, dopo la fine di tutto e l'infrangersi dei sogni contro la barriera della realtà.

Cresciuto in un decadente quartiere di un’agonizzante metropoli, vissuto di espedienti e di rifiuti, alzavo gli occhi e vedevo le stelle. Ero uno dei pochi ragazzini ad ascoltare rapito le storie dei vecchi, memorie di prosperità e di paradisi perduti. Quando era troppo buio persino per rovistare tra i rifiuti alla ricerca di cibo, io sognavo a occhi aperti, dimentico del freddo e della fame, perso negli spazi infiniti della mia mente.

La voce narrante diventava sottofondo di riflessioni. Coglievo soltanto pochi brani, fantasticavo di eroi lanciati nello spazio per catturare quei puntini luminosi, per andare alla conquista di nuovi territori da portare in dote al genere umano. Quello era il mio destino, lo sentivo: dedicarmi alla scienza per volare via da quell’inferno. Quando il Governo decise di finanziare un programma per la Colonizzazione, fui uno dei primi a iscrivermi. In un mondo di disoccupazione generalizzata e di miseria, solo le professioni di scienziato o di astronauta potevano garantire un’opportunità: questo recitava la campagna pubblicitaria governativa.

Superai le severe selezioni, mi iscrissi all’Accademia, divenni uno scienziato.

Insieme rispolverammo progetti di navi spaziali vecchie di tre secoli e, per la nostra totale incompetenza, le prime missioni fallirono miseramente. La nave spaziale Gea II esplose al decollo, mentre Gea III per un errore di calcolo non riuscì a vincere la forza di gravità ed entrò in orbita geostazionaria, dove i malcapitati astronauti morirono di fame e di stenti.

Prima della partenza di Gea IV, ci prendemmo una pausa di riflessione. Un ulteriore insuccesso sarebbe stato fatale al piano di colonizzazione spaziale, oltre che a me personalmente, in quanto venni scelto per la missione come coordinatore scientifico.

Sul pianeta Terra, alle soglie del terzo millennio, l’annoso problema della sovrappopolazione era diventato insostenibile e le genti si dibattevano per sopravvivere tra continue sommosse e carestie. Le risorse del pianeta erano insufficienti per provvedere alle crescenti esigenze della popolazione, ammassata negli immensi alveari delle decadenti metropoli. Madre Terra era vecchia e stanca, lasciava morire i suoi figli a milioni. Il Governo Planetario pensò di arginare la crisi attraverso il tanto discusso programma di Colonizzazione Spaziale. Gli uomini erano diventati adulti, era giunto il momento di abbandonare lo scomodo nido materno e di cercare un’altra Casa. Nuovi mondi vennero esplorati, nuovi avamposti umani vennero fondati in regioni distanti decine di anni luce, dove i pionieri dovettero lottare contro una natura inospitale... [stralcio riprodotto da: Storia Universale - vol. 6 - Gli Anni Pionieristici della Colonizzazione]

Alle enormi cupole in plexiglass rinforzato, abitate da tecnici e scienziati, seguì una colonizzazione di massa. Vennero costruite le città, piegando alle umane esigenze quel magnifico e rigoglioso pianeta alieno. Ricco di minerali, vegetazione e splendide forme di vita, divenne il nuovo Eden. Poi accadde l’imprevisto: una terribile malattia altamente contagiosa, che trasformava gli uomini in mostri deformi, si diffuse a velocità esponenziale. Lavorai notte e giorno, ma riuscii a trovare un vaccino, sperimentandolo subito sulla mia assistente Elena e su di me.

Immuni al contagio, armati di una cura e di una speranza, entrammo nel reparto di quarantena dell’ospedale. E sprofondammo nella disperazione quando, proprio sotto i nostri occhi, i pazienti riuscirono a eludere le misure di contenimento per riversarsi all’esterno della struttura.

Gli esseri si strappavano le carni putrescenti di dosso, mentre le escrescenze che avevano sulla schiena si gonfiavano fino a lacerare la pelle. Ma sotto quella devastazione, c’era un nuovo strato cutaneo, candido e perfetto; dalle innaturali escrescenze sulla schiena spuntavano candide ali piumate. Alcuni, in fase più avanzata della metamorfosi, provavano a flettere i nuovi muscoli delle ali, cercavano il vento favorevole, si alzavano in volo con grazia e leggerezza che non avevano nulla di umano. Volavano sempre più distante, sempre più in alto, sfruttavano con innata maestria le correnti ascensionali e comunicavano tra loro emettendo sonori richiami.

Il tanto temuto morbo trasformava in larve umane, mero stadio di crisalide in un processo di adattamento rapido e complesso. Nel pianeta non esistevano creature di terra e anche gli uomini dovevano adattarsi. Non bisognava cercare un antidoto, bensì esporsi al processo evolutivo.

Incapace di parlare per l’emozione, rimasi a fissare a bocca aperta quei puntini sempre più piccoli. Ormai era impossibile tornare indietro. I nuovi angeli erano scomparsi oltre la linea dell’orizzonte, volavano liberi in un cielo alieno, popolato da migliaia di creature alate. Mentre noi, che avevamo rinunciato a tutto questo, avremmo per sempre strisciato, quali sgraziati bruchi, in un mondo popolato da splendide farfalle.

Afferrai la mano di Elena con la forza della disperazione. Dalla posizione privilegiata sul terrazzo dell’ospedale, avanzando verso il parapetto, lasciai scorrere lo sguardo sul mondo terraformato, ormai tristemente inadatto alla vita dell’uomo.

Mi lasciai cadere nel vuoto insieme a lei, e ancora sognavo di poter volare via, quando invece andavo incontro alla fine di un novello Prometeo, cui il sole della scienza aveva bruciato le ali.

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