lunedì 27 ottobre 2014

provini - Prima che il sole sorga, Jay Baren

PRIMA CHE IL SOLE SORGA
Jay Baren




L'aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l'aria ancora frizzante della notte. «E' ora di muoversi», disse.

Sgattaiolò sul tetto e si avvicinò con cautela alla grondaia, poi, facendo molta attenzione, si aggrappò al pluviale. Nonostante l'accortezza nei movimenti, questo rimbrottò con sinistri cigolii, mostrando le avvisaglie di un imminente cedimento, ma Elena fu abile a restare calma e immobile, e con un paio di carezze su quel rame sdruccioloso, ammantato di fresca rugiada, stabilizzò la sua emotività, facendolo ritornare mansueto e silenzioso.

“L'ho rischiata grossa” pensò, dopodiché riprese a scivolare lentamente lungo tutto l'asse metallico. Quando i suoi piedi toccarono il basalto del marciapiede, sistemò la cinghia del tascapane sulle sue spalle, che nella discesa si era incapricciata riversandosi sul braccio. Era in ritardo sulla sua tabella di marcia, lo sapeva, ma quantomeno aveva la certezza che nessuno la stesse seguendo. Iniziò a correre. L'aria non aveva ancora smorzato del tutto le rigidità atmosferiche della notte appena trascorsa: le punzecchiava la punta del naso e mordicchiava i suoi polmoni. I lampioni amplificavano diafani cerchi concentrici attorno ai loro cuori luminescenti. La città si stava pigramente risvegliando sotto gli scalpitii della sua corsa contro il tempo. Le finestre pian piano si schiudevano e i portoni di tanto in tanto sbadigliavano, restituendo alla strada fremiti di vita sonnecchiante.

Elena correva a perdifiato e inalava l'immensità di quel sogno covato in eterno. Non c'erano ingranaggi morali che ne compilavano registri e logica, ma soltanto la spasmodica speranza di un'ipotetica realizzazione.

L'attrito della guazza spirava sulle sue guance pallide e imprimeva il suo passaggio nel vuoto dello spessore mattutino. La brezza le leccava teneramente le tempie. Nessuno poteva correre più veloce di lei.

In prossimità di un panificio rallentò la sua falcata e si acquattò in un angolo aspettando il momento propizio per compiere il primo furto della sua vita. Non aveva denaro con sé, non ne aveva mai avuto. Quando il garzone adagiò una cesta colma di pane ai piedi della bicicletta, con uno scatto felino riuscì a sottrarre una pagnottella ancora calda e la infilò furtiva nella sua sacca. Infine riprese la sua febbrile gincana. Si voltò per un attimo, ma alle sue spalle nessuno aveva scorto niente di anomalo.

Intanto i primi raggi di sole balenavano sulla silhouette dell'orizzonte; la gamma di colori impastava sfumature di viola, rosso e giallo ocra. L'immensa stella di fuoco non aveva ancora mostrato la sua possente e dorata chioma, e questo stava a significare che c'era ancora tempo.

Elena aveva il cuore in gola, ma non avvertì stanchezza quando risalì i gradini del sagrato saltandoli a due a due. All'interno della chiesa iniziò a strillare per richiamare l'attenzione del prete, ma nessun udito mostrava attenzioni per la sua accorata peana. Iniziò a piangere e a disperarsi, ma poi pensò che non sono gli abiti a rendere solenne il rito della consacrazione, quindi asciugò le sue lacrime, si avvicinò all'acquasantiera e con poche gocce benedisse il suo pane. Gambe in spalla, riprese a galoppare. “C'è ancora tempo, c'è ancora tempo” pensò.

Le strade iniziavano a popolarsi di visi assorti e indifferenti, nessuno faceva caso alla corsa disperata di quella povera bambina, vestita con straccetti tirati su alla buona e con un tascapane a tracolla che sbandierava al vento. Ma per lei era meglio così, se qualche passante l'avesse notata, avrebbe potuto ostacolare la sua sfida contro il tempo, e lei non poteva permetterselo.

Quando raggiunse l'entrata del cimitero trovò il cancello chiuso. Quel piccolo intoppo non l'avrebbe di certo fermata, ormai era quasi fatta. Si appiattì più che poté e con uno sforzo sovrumano riuscì a filtrare attraverso la stretta fenditura. Il sole non era ancora sorto.



Tra i bambini che riempivano la quotidianità di Elena circolava una singolare storiella. Una storiella che sicuramente era il parto di cuori meno puri. Qualcuno le aveva detto che le madri sono solite abbandonare i figli cattivi e indisciplinati e si raccontava che soltanto chi avrebbe spezzato del pane benedetto sulla tomba dei propri cari si sarebbe potuto a loro ricongiungere. Ma bisognava farlo necessariamente prima del sorgere del sole.

Lei non si sentiva cattiva, e nemmeno indisciplinata, ma era lì per spiegarle che non era colpa sua se quella volta le suore l'avevano messa in punizione; non era stata lei a rubare il miele dalla credenza e nemmeno i cornetti dalla dispensa; sì, il libro sì, ma non lo aveva rubato, lo aveva soltanto preso in prestito.



Elena si precipitò sulla lapide di sua madre, facendo attenzione a calpestare con delicatezza quel sacro suolo erboso. Guardò verso l'orizzonte, i raggi non erano ancora divenuti corolla; era quello il momento giusto. Deglutì un sospiro, che servì ad esorcizzare una sgradita disillusione, poi spezzò il pane. Dal suo nucleo si sprigionò una palla di luce intensissima, che l'avviluppò nel tepore delle sue potenti spire. Quando i bagliori accecanti si diradarono, finalmente riuscì a sussurrare quella parola dolce, tanto attesa e cercata, della quale la vita l'aveva derubata: «Mamma».


Il sole si era appena accovacciato sulla vallata, iniziava a riscaldare membra e a illuminare tristezze. Ai piedi dell'orfanotrofio Sant'Elena giaceva esanime il corpicino di una bambina che indossava straccetti tirati su alla buona e un tascapane a tracolla. Era precipitata dal tetto, nelle prime ore dell'alba, morendo sul colpo.

Da quel giorno le storielle assunsero tutt'altro senso.

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