Dove io sono me
Oriana Tardo
L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. «E’ ora di muoversi», disse.
Guardò
un’ultima volta quel balcone lassù, quello della camera da cui era
fuggita. Una notte spezzata a metà. Aveva fatto scivolare piano le
lenzuola per alzarsi dal letto, senza svegliare l’uomo che le si era
addormentato a fianco. Fu assalita dalla paura, la paura di restare.
Decise che doveva andarsene prima che lui si svegliasse, alle prime luci
del mattino. Giunse a casa col fiatone, il cuore palpitava ancora e non
sarebbe riuscita a prender sonno. Così, afferrò carta e penna per
mettere a tacere le sue sensazioni caotiche, lasciandole scivolare
fuori, sul foglio bianco…
Non
so più distinguere la paura dalla bellezza che, con fare incerto, si
muove intorno a noi. Non so più se la paura ha il sapore amaro di non
averti o se ne assaporo l’eccitante scoperta senza fine, un continuo
toccarsi senza mai raggiungersi. Non so più se chiamare paura la tua
bocca che mi prende a morsi, e sbrana le labbra chiuse della mia anima, o
chiamarla estasi. Vorrei non sentirmi bruciare nel frastuono delle tue
carezze, vorrei non ritrovare la mia pelle in frammenti, strappata,
pezzo per pezzo, da questa maledetta passione. Sento il mio corpo
vibrare contro il tuo, confondendo piacere e dolore. Li sento entrambi
prendermi mentre piango. Piango bellezza e dolore, l’immagine sfocata di
un dolore che non conosco, ma forse non è dolore, è solo paura che di
dolore si veste. E’ come trovarmi a un passo da me, forse la mia ombra
proiettata in avanti, buia e vuota, che solo la luce tratteggia e
rivela. Piacere e dolore, entrambi li piango sentendomi viva, con la
paura di desiderarli ancora, e ancora. Ferirmi e leccarne la dolcezza.
Cosa sei? Non so più distinguere i mostri dagli angeli, e tu non sei
l’uno nè l’altro. Sei ciò che non so, l’altalena degli opposti, sei la
culla dell’incertezza che mi addormenta nei boschi, e dondoli come un
pendolo che mi ipnotizza. Sei uno stato ipnotico che si prende la mia
voce, i miei movimenti. Ti sei preso i miei fogli e le mie dita e solo
adesso riesco a liberarli.
Un
salice piangente è la mia metamorfosi, ho mille braccia che avvolgono
il mio corpo a proteggerlo, fronde che smuovi soffiando con leggerezza, e
tendo sempre più a incurvarmi, tocco la terra con la punta delle dita,
foglie che dondolano. Sono piegata, come un tronco immobile, mentre
agito le braccia e i capelli vi si confondono.
Mi
risveglio dalle metafore e torno a scriverti, scrivo perché non c’è
tempo per parlare. Sembra fuggire il tempo di esserci, mi prendi muta e
indifesa. Sembra sfuggire il tempo di concedersi e aspettare, perché il
tempo non è fuori di noi e noi siamo l’attesa. Così non c’è tempo per
nient’altro, perché siamo nient’altro.
Mi vuoi? Dove sono me o dove sono nient’altro?
Quando
il tempo si è fermato al nostro passaggio, tu eri già fuggito. Correvi
lontano, eri già andato via. Ho visto il tempo inseguirti senza mai
raggiungerti. Ed io rimanevo tra lui e te, rimanevo lì a guardarvi,
tenendo in mano una peonia nera. Non cercavi una primula nera ed io non
ho trovato ancora il tuo cosmos atrosanguineus. Reggo una peonia nera, in attesa che il tempo ritorni e restituisca i fiori all’autunno.
Anche
tu smetterai di fare confusione? Smetterai di giocare a nascondino?
Smetterai di accarezzare i capelli alla tua bambola sul letto? Vuoi
giocare ancora con lei o guardare i miei occhi? Mi riconosci? Vuoi farmi
a pezzi e ricompormi? Ferirmi e ricucirmi? Vuoi dipingere la mia pelle
bianca e farmi nodi fra i capelli? Vuoi giocare a svestirmi, guardarmi
nuda e prendermi, poi rivestirmi? Vuoi giocare a spaventarmi?
Vuoi
andartene o restare? Vuoi ingoiare le mie lacrime? Ma quali lacrime?
Quelle degli occhi cambieranno sapore di volta in volta, se sai
raggiungerle. Quelle che scendono sotto il monte di Venere le hai già
prese e riprese, quasi ti appartengono, incatenate alle tue labbra, alle
tue mani. Inarrestabile spasmodica attrazione, non riesco a sottrarmene
e ne sono pervasa totalmente. Questo sai mi spaventa. E tu, tu non
affilare la lama. Ti prego, non uccidermi. Non ancora. Vuoi ancora
dormire sul mio seno? Sai, cominci a pesarmi sul cuore, prendilo o
finirò per ucciderti.
Finiamo
sempre per parlare degli altri, del mondo, dell’assurdo, e di noi si
prende gioco il silenzio. Due burattini muti, sono stanca e non mi
muovo. Sono schiava del silenzio e aspetto di sciogliere queste catene,
come nodi fra i capelli, quando tornerò a pettinarli. Parole non dette e
parole dette al vento che le restituisce falsate.
Cosa
sento? Non sento. Sento solo che barcollo cercando di non cadere, in
equilibrio instabile, da sempre. Vivo in un labirinto di specchi, dove
non riconosco più me, per distinguerne le immagini riflesse.
Moltiplicandosi esse si sono staccate da me e, forse per paura di
perdermi, le ho spedite tutte a cercare la via d’uscita. Ma io, io mi
sono fermata ad aspettare che una di esse tornasse a prendermi.
Nell’attesa mi sono confusa tra loro, perché ciò che vedo è la mia
proiezione declinata all’infinito.
Così
voglio questo e quello, sento freddo e caldo, brividi e tepore, piacere
e dolore. Sono il bianco e il nero, voglio il rosso e il blu, abbraccio
l’aurora e il crepuscolo, aspettando l’imbrunire come un albore, vivo
nel sole e mi vesto di luna. Ti voglio e ti respingo, ti perdo e ti
aspetto, ti chiedo e non ti ascolto, ti sento e non chiedo altro, sei
con me e contro di me, sei qui e lì, sei dentro di me. Paura. Non è
altro che paura. Credi di salvarmi? Mi ucciderai o ti ucciderò. O
entrambi ci risparmieremo. Dondola con me perché scrivo inventandoti,
tramando una storia che non c’è. Come un’isola vergine, costruisco
visioni, mi arrendo. Stento a crederti, ma amo le tue favole. Sto ancora
aspettando la realtà. Raccontami il tuo dolore, sputa i desideri,
sputameli addosso. Vorrei ingoiare le tue paure, se solo le conoscessi,
potrei confonderle con le mie, se solo le conoscessi. Vieni con me, dove
io sono me.
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