mercoledì 21 gennaio 2015

provini - Via di qua, Gloria V. Togni

Via di qua
Gloria V. Togni


L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. «È ora di muoversi», disse.

Glauco e Simone la guardarono perplessi.

«Sei proprio sicura di volerlo fare?» chiese il primo.

«Ovvio che sì» rispose risoluta lei.

Avevano dormito avvolti nei sacchi a pelo rubati dal magazzino, quella notte. Fuori, all’aperto, sulla collina che dominava Civita di Bagnoregio. Che a quell’ora del mattino era uno spettacolo, con l’arancione dell’alba che accendeva le fronde degli alberi e i tetti che sembravano prendere fuoco, quello stesso fuoco che bruciava nel petto di Elena e che a malapena illuminava di audacia le anime dei suoi due compagni.

A breve si sarebbero svegliati anche all’orfanotrofio e chissà il caos che la loro scomparsa avrebbe generato. Già immaginava Dorina, la direttrice, spalancare con rabbia tutte le porte, cercandoli in ogni angolo ringhiando come un rottweiler, di cui condivideva anche l’aspetto fisico. Bassa, tarchiata, massiccia, la bocca perennemente piegata in un ghigno, le sopracciglia sempre aggrottate, mai un sorriso. E le mani sempre pronte a menar botte.

«Se avete cambiato idea vi capisco» risprese lei. «Io, però, non ci torno» concluse ripiegando con cura il sacco a pelo e riponendolo nello zaino, rubato anch’esso nonostante fosse suo, ma prontamente requisito dal personale il giorno del suo arrivo.

Elena, Glauco e Simone. Ventinove anni in tre e qualche centinaio d’anni o più di sofferenza sulle spalle. Tre piccole anime acerbe ma già provate dall’esperienza. Tre contenitori vuoti che non attendevano altro che di essere riempiti di vita, ma di quella vera, quella ancora sconosciuta ma ben al di fuori dei cancelli di quel luogo di ingiustizie che li aveva fagocitati da troppo tempo.

Elena guardò un’ultima volta la città che per undici anni l’aveva accolta. Sentì un calore, dentro al petto: rimpianto? Nostalgia?

Sì, forse Civita le sarebbe mancata. Anzi, ne era certa. Ma era stanca. Stanca delle botte, stanca dei soprusi, stanca di non poter conoscere, imparare, sperimentare cose che non fossero imposte da altri.

C’era solo un modo per poterlo fare, per poter sperimentare la libertà, ed era fuggire.

Quando l’aveva detto a Simone e Glauco loro l’avevano guardata come si guarda un elefante verde a pois lilla che vola usando un’elica al posto della proboscide. Pensavano scherzasse, ma lei aveva già attuato parte del suo piano, riuscendo a trafugare sacco a pelo e zaino per sè, sistemando una cosa alla volta, un giorno alla volta, dentro a quello zaino, quello che le sarebbe servito per la fuga.

A colazione ogni mattina rubava del pane, una confezioncina di marmellata, un coltello, un cucchiaino, dello zucchero, dei biscotti. Aveva imparato a scegliere solo cose che non deperivano a breve.

Aveva scoperto dove Dorina teneva la cassetta con i contanti per le spese quotidiane, sapeva dove nascondeva la chiave della piccola cassettina metallica che conteneva il prezioso bottino.

Convintisi, anche gli altri due avevano seguito il suo esempio e col suo aiuto anche loro riuscirono ad organizzarsi per la fuga.

Ora che finalmente erano fuori, su quella collina, i due bambini cominciarono a manifestare le prime perplessità, a sentir vacillare quella sicurezza che in Elena era ancora così granitica.

Si guardarono per l’ultima volta. Elena li abbracciò a lungo, prima uno poi l’altro. Negli occhi una promessa: non avrebbero mai detto dov’era andata. Avevano già memorizzato una confessione più che plausibile: lei li aveva abbandonati di notte, mentre dormivano, e loro non si erano accorti di nulla. Avrebbero sostenuto qualsiasi tipo di terzo grado, di interrogatorio. Non l’avrebbero tradita.

Sì, Civita di Bagnoregio le sarebbe mancata, ma aveva un lungo viaggio da compiere.

Quel viaggio si chiamava libertà.

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