La mia bugia preferita

Claudia Aprea


“So che t’avrei amato, e so che tu lo sai”
(Charles Baudelaire)

Alla mia famiglia per l’amore e la pazienza;
A Santa, Francesca, Anna, Claudia ed Elianna per il bene dimostratomi;
A te che stai leggendo…

L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Socchiusi gli occhi e respirai a fondo l’aria ancora frizzante della notte. <<È ora di muoversi>> dissi, dischiudendo un poco le labbra.
Dovevo sostenere l’esame di Storia del Diritto Romano, e non potevo certamente contemplare i colori rosati di quel maestoso paesaggio pittoresco, che si dipanava innanzi ai miei occhi –anche se l’idea mi allettava non poco.
Ciabattai pigramente verso il soggiorno, avvolta nel mio largo e caldo pigiama di pile; stiracchiandomi, ancora intontita dal sonno, mi sedetti al grande tavolo di vetro, dove era adagiato il libro di Storia. Spulciai qualche pagina, attratta maggiormente dai fasci di luce dorata che filtravano dai forellini della persiana e baciavano quel libro consunto. “Non ne posso più: odio il diritto, odio l’università!” era divenuta ormai una cantilena incessante nella mia mente, fin quando non guizzò il solito, opprimente, pensiero: il pensiero di te, che mi trasportò inevitabilmente verso quel freddo giorno di inizio dicembre…

Calcai sul capo il cappellino nero alla francese e, impugnando l’ombrello, mi avviai verso l’uscita dell’università.
<<Andiamo via con tua madre?>> mi chiese Anna, venutami incontro.
<<No, lei oggi lavora>> mentii spudoratamente; lei annuì col capo, semplicemente.
<<Avviamoci verso la stazione, allora>> affermò lei.
<<Devo aspettare una persona>> le confessai d’un fiato, mentre l’imbarazzo crescente –misto all’ansia- mi stava macerando l’anima; stupita, la mia collega spalancò gli occhi, dando vita ad un’espressione buffa, che provocò in me un moto di divertimento, contrastante con l’agitazione che pian piano s’impossessava della mia persona.
<<Chi aspetti?>> la curiosità stava prendendo nettamente il sopravvento.
Avendo già una relazione amorosa e, pertanto, cercando di evitare giudizi crudeli, non avrei voluto rivelarle nulla, ma le circostanze mi costrinsero a parlarle.
Agitai convulsamente le dita, come se stessi pigiando i tasti di un pianoforte invisibile; il volto della mia collega si illuminò e sembrò capire cosa le stessi comunicando tramite quel gesto goffo.
<<Stai aspettando il pianista!>> malgrado fosse un’affermazione, e non una domanda, le risposi fermamente di “sì”.
<<Siamo solo amici>> non mi sembrò irrilevante fare quella precisazione, essendo, appunto, già fidanzata. <<Mi ha invitata al conservatorio,vuole suonarmi qualcosa>> continuai.
<<Allora io vado via, altrimenti perdo il treno. Buon divertimento!>>.
La vidi allontanarsi tra gli studenti, imbacuccata e infreddolita, premendo la sciarpa contro il collo, pronta a combattere il gelo che l’avrebbe attesa non appena avrebbe abbandonato la Facoltà di Giurisprudenza. Mi incamminai verso l’edificio storico e duecentesco che accoglieva le Facoltà di Lettere e Filosofia e Giurisprudenza, dove avevamo deciso di incontrarci.
Scrutavo attentamente i volti dei passanti, perlopiù nascosti dai cappelli e dalle sciarpe; tra quei visi anonimi e arrossati dal freddo tentavo di riconoscere il tuo naso adunco punteggiato di chiare lentiggini, e i tuoi occhi scuri, che sembravano chiudersi in due fessure non appena sorridevi. Sembravo essere la protagonista di un romanzo rosa o di un film romantico e smielato: circondata da comparse ed in palpitante attesa del ragazzo amato. Di tanto in tanto continuavano a frullare pensieri di vario genere, dettati dall’ ansia incontrollabile: “Sono vestita adeguatamente?” oppure “E se non dovesse presentarsi all’appuntamento?”.
Mi piacevi, malgrado fossi già impegnata; esercitavi su di me un fascino davvero notevole, probabilmente scaturito dalla tua condizione di giovane artista; quando mi specchiavo nei tuoi occhi, sembrava fossi vittima di un potente sortilegio: non riuscivo a distogliere lo sguardo, avrei voluto per sempre incatenare i miei occhi ai tuoi e così cogliere ogni aspetto del tuo volto, della tua persona.
Coraggio, quando arrivi?” pensavo insistentemente; la mia schiena fu colta da numerosi spasmi, il cuore batteva all’impazzata, come se avessi corso alla velocità della luce; mentre sembrava che mani invisibili attorcigliassero lo stomaco, visti i fastidiosi crampi di cui era preda.
Ad un tratto avvertii una mano posarsi delicatamente sulla mia spalla; era una mano snella dalle lunghe dita affusolate. Sobbalzai e, non appena voltai il capo, incontrai i tuoi occhi scuri come il carbone. Sbigottita, biascicai un impacciato “ciao”, intriso di vergogna e di agitazione.
<<Ciao, Claudia>> mi salutasti.
<<Non ti avevo visto arrivare>> mi giustificai, non appena trovai un po’ di calma per parlarti.
<<Come stai?>> ti chiesi subito dopo, per evitare di piombare in un silenzio imbarazzante.
<<Bene; tu come stai?>>
Accennai un lieve sorriso, rispondendoti: <<Sto benissimo>>.
In realtà la trepidazione cominciava a procurarmi una fastidiosissima nausea, ma ancora sopportabile.
Ci incamminammo verso il conservatorio, luogo prestabilito, ormai abituatami alla tua presenza. Giunti a destinazione, fui colpita da quel luogo atavico: la struttura trasudava antichità da tutti i pori, gli interni –non restaurati- sembravano accogliere perfettamente il rigido ambiente musicale; ormai l’intero edificio era rigurgitante di musica: sembrava che quella profusione di suoni non fosse emessa unicamente dagli strumenti, ma le pareti, le porte, le finestre, l’ambiente tutto sembrava unirsi in quel concerto altisonante e confuso; ormai il senso di nausea aumentava a dismisura, infatti ti chiesi di portarmi in un luogo tranquillo per potermi riprendere dall’abbattimento fisico; mi conducesti in un chiostro sito all’interno del conservatorio stesso, dove la musica giungeva fievolmente e non rimbombava impertinentemente nella mia testa. Ci accomodammo su una vecchia panchina di legno e, ricordo, parlammo di ogni cosa: dei nostri progetti futuri, delle aspettative che ponevamo nella nostra scelta universitaria, e sì, anche della relazione che avevo col mio ragazzo.
<<Se hai capito di non provare più nulla per il tuo ragazzo, come mi hai detto, perché non vi lasciate?>> mi chiedesti.
Fissai l’orizzonte, come se la risposta arcana fosse racchiusa all’interno di quelle nuvole grigie come il piombo, che si erano addensate fittamente, creando una spessa lastra dalla quale non trapelava il benché minimo raggio di sole.
<<Io e lui abbiamo condiviso tre anni, e sono tanti; prima di giungere a conclusioni affrettate, devo valutare bene la situazione>> tergiversai, guardando il tuo volto esterrefatto: strabuzzasti gli occhi e lasciasti cadere la mascella, esclamando: <<Wow… tre anni!>>. Io ti sorrisi, totalmente ignara dei sentimenti che provavo verso il mio ragazzo: eri apparso nella mia vita come un fulmine a ciel sereno e, sin dal primo sguardo, mi ero sentita legata a te da vincoli che un tempo credevo indissolubili, avevi scombussolato la mia vita, rubandoti l’anima e il cuore…
Di punto in bianco cambiasti argomento, mi proponesti di seguirti verso la sala dove si tenevano i concerti più importanti, non distante dal chiostro dove ci trovavamo. Le mie orecchie captavano un suono che diveniva sempre più percepibile, man mano che ci avvicinavamo alla sala.
<<È un organo>> mi spiegasti, malgrado non ti avessi posto nessuna domanda.
L’accesso al luogo avveniva entrando dapprima in una saletta ben illuminata, dove erano stipati vecchi pianoforti e altri strumenti ormai in disuso; la musica prodotta dall’organo era ormai divenuta percettibile e definita: sembrava essere espressione di un animo tormentato, avvolto dalla più nera cupidigia, sfiorando toni funerei, alti e oscuri come la malinconia, quasi come se fosse animata da una forza estrinseca e demoniaca.
Scostasti una spessa tenda rossa e, nella semi-oscurità della sala per i concerti, riuscii a vedere il gigantesco organo e l’ampiezza abnorme del luogo; ma un malessere improvviso mi colse: avvertii un capogiro e mi appoggiai alla tua spalla per non rovinare al suolo. Tu approfondisti quel contatto, cingesti le mie spalle col tuo esile braccio e mi stringesti forte, avvicinando il mio viso al tuo. Palesemente impotente, mi accorsi che le guance erano accaldate e il mio cuore palpitava così forte, che credevo potesse balzare dal petto e poi esplodere, ma, sebbene intimidita, non mi liberai dal tuo abbraccio, adagiai il mio capo al tuo petto e approfondii l’abbraccio aggrappandomi alla tua schiena.
<<Sediamoci di nuovo, magari, se ti sentirai meglio, posso suonarti qualcosa>> mi dicesti; avevo totalmente dimenticato il motivo principe della mia visita al conservatorio, visto il malessere fisico.
Rimanemmo in quella condizione, per me imbarazzante, anche quando tornammo a sederci sulla panchina. Ormai pioveva a dirotto, e il suono scrosciante delle gocce di pioggia si fuse con il canto di una ragazza, colmando il silenzio che intercorreva, scivolando fra noi come un velo, coprendo le nostre anime. Le tue mani carezzavano ritmicamente i miei capelli, e le tue labbra si avvicinarono alla mia fronte, tempestandola di baci; altro non potevo che abbandonarmi alle tue manifestazioni di tenerezza, fin quando, avvicinandoti al mio volto oltre i limiti del lecito, premesti le tue labbra rosee contro le mie. Un’esplosione di musica e colori scoppiò nel mio animo, come se fosse stata la prima volta che provassi un sentimento così forte per un ragazzo.
Il posto migliore del mondo era tra le tue braccia, adagiata al tuo petto, ascoltando il battito del tuo cuore, la cui soavità sembrava sovrastare la musica proveniente dalle aule di quel luogo, testimone dell’atto di tradimento.
<<Perché…?>> proruppi all’improvviso <<Perché mi stai baciando?>> ti chiesi ingenuamente, pentendomi subito dopo, vista la stupidità della domanda; sul tuo volto comparve il sorriso che amavo tanto, e ti illuminò come una stella.<<Claudia, tu mi piaci>> furono parole caldamente sussurrate, che giunsero alle mie orecchie come le più veritiere del mondo.
Sorrisi, in balia di quel tripudio di emozioni che mi stavi donando, per la prima volta nella mia vita avevo oltrepassato i limiti della felicità, dimenticandomi della vita che scorreva fuori da quel luogo, come se la musica ci avesse trasportati e incastonati in una dimensione parallela e avesse bloccato la vita sulla terra.
<<Che ore sono>> ti chiesi, sciogliendo l’abbraccio che parve eterno.
<<È ora di andare, tra poco devo seguire una lezione>> mi spiegasti <<Però, prima che tu vada, voglio un ultimo bacio>>. Senza esitazioni, congiungemmo nuovamente le nostre labbra, in quel pomeriggio al sapore di pioggia e tradimento; ti rivolsi uno sguardo complice e ammiccante, che parve non dispiacerti e, schioccando un bacio su una gota di albicocca, mi allontanai da quel luogo e, senza saperlo, dalla tua vita…
Le mie guance erano rigate di lacrime, bagnando il libro di Storia. La mia anima era in frantumi come uno specchio rotto. Cos’era rimasto di me? Cos’era rimasto di te? Niente, null’altro che polvere e ricordi che nella mia mente continuavano a vivere, cocenti come il sole d’estate, preziosi come un tesoro. Ma ciò che continuava a farmi battere il cuore era la vana illusione del tuo ritorno, la speranza che un giorno le nostre labbra avrebbero nuovamente combattuto una guerra di baci. Spesso nei miei sogni più belli mi sorridevi e, convincente e sincero, affermavi: <<Claudia, tu mi piaci>>, la mia bugia preferita.