mercoledì 21 gennaio 2015

provini - La coscienza, Luca Giovagnola

LA COSCIENZA

Luca Giovagnola

 
L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. 
“E’ ora di muoversi”, disse. 

La macchina cullava Elena in un dolce sonno, tra le stradine di campagna, prese piano perché non si svegliasse col suo dolce sorriso da bambina, scena armoniosa e piena di grazia quella, data dalla morbida luce del sole che tardava a sorgere, dal sorriso dolce di lui, dalla mano esperta che cambiava rapidamente per andare a sostenere la sua dolce testolina che scivolava sul sedile, tutto bellissimo, peccato che lei fosse una puttana. Baby prostituta per la precisione, e no, non le piaceva quella vita e lui non era dolce perché le voleva bene, solo perché l’aveva prenotata per una serata intera pagando duemila in anticipo: poteva fare di lei ciò che voleva, pur sapendo che una ragazza di sedici anni con un vecchio sulla cinquantina, con i lunghi unti capelli grigi, non si sarebbe mai concessa, neanche per sogno. Come lo so? Facile, io sono l’amico della puttana, quello che non se la scopa. Ma entro molto dopo in questa storia, tra poco più di ventiquattr’ore, perché mentre lei dorme io mi sto organizzando la serata…
Io puntavo a un’altra quella sera, avanzavo inglobando a bocca aperta ogni singola molecola di ossigeno che io e lei condividevano. La scorsi con la coda dell’occhio, quando l’altra alzò il bicchiere pieno di Bourbon e urlò in modo da farsi sentire da tutta la sala: “Brindo al miglior poeta che si sia mai visto”. Era tornata quella sera affamata come gli altri, sapeva cosa aspettarsi da una serata del genere, ma non si aspettava me e solo per me avrebbe cambiato i suoi programmi e aperto il confessorio. Stavo sdraiato sopra una panchina sorseggiando da una bottiglia di Jack Daniels che avevo confiscato al buffet, la tenevo stretta in mano, sorseggiavo e pensavo che l’avesse fatto solo per avere la certezza di potermi parlare. A lei bastava che l’ascoltassi e che dopo un discorso che spesso non capiva le dicessi: “Non sei cambiata”, lei era contenta di ciò, si sentiva meglio, liberata, e gli compariva sul volto un sorriso da infante felice, come se per lei quella frase bastasse a tornare bambina; eppure integra non era mai stata mai, era compromessa, ma come biasimarla, chi vorrebbe sentirsi dire: “I tuoi genitori invece del pane dovevano darti carezze, ed ora le vai cercando tra uomini più grandi di te”, come tanti preferiva ignorare la sua natura. Si avvicinò a me barcollante, le feci posto sulla panca, sorrideva e non diceva niente, mi guardava soltanto inebetita, le dissi: “Che vuoi? Grazie a te, pure qua non si combina niente, gli altri pensano che tu stia con me”, lei si fece più sorniona e strisciando verso me disse: “A questo si potrebbe rimediare”. “Non voglio, lo sai”. Per un attimo mi passarono per la testa le storie che mi raccontava, quelle che gli devastavano il cuore. Iniziava il mio di lavoro. Ce l’hai una sigaretta?”, come ai vecchi tempi mi passò un pacchetto intatto e un accendino, me ne accesi una. Ci fu un attimo di silenzio, poi dissi “Dai su racconta com’è andata quest’anno?”. S’era comprata un appartamentino in centro e l’aveva anche arredato con i soldi che guadagnava, non lavorava di più, semplicemente si faceva pagare di più, era giovane e ci sapeva fare e la pagavano sempre un po’ più delle altre. Ora stava bene, s’era ammalata per un periodo e lì era stata dura, il dolore vero ti lascia in faccia segni che non si cancelleranno, il lavoro subito dopo l’ospedale per poter mangiare. I genitori una volta scoperto il suo lavoro che faceva l’avevano cacciata via di casa. C’era un tossico che l’amava, una sera lui la voleva obbligare a farsi, lei gli aveva rotto la siringa e lui l’aveva massacrata di botte, lei era andata in ospedale. Ed era ancora sbronza del fatto quando era arrivata alla fine del racconto di un anno da sopravvissuta. Le dissi che ora stava crescendo, che doveva imparare a vivere quel mondo marcio con una certo distacco, di cercarsi un altro lavoro: “Dovresti finirtela di bere così” le dissi, “Anche tu” rispose lei sorridendo e per un istante ci tornarono alla mente tutti gli amici che si erano persi per strada, tirai su un sorso dalla bottiglia e la porsi a lei. “Non finire come gli altri”. Mi guardò con disprezzo perché lei si sentiva parte ancora di quella gente, ma sapeva che io ero diverso. Stava per riprendersi le sigarette quando tentò d’alzarsi, ma cadde rovinosamente sulla panchina, m’alzai e la sostenni, la portai verso un tavolo. Mangiammo gli avanzi del buffet, oramai freddo, avevo trovato lì vicino un quarto di bottiglia di vino che avevo riempito fino all’orlo d’acqua, gliela porsi. All’inizio mangiava restia, arrabbiata, ma sapeva che mi sarei comunque preso cura di lei, faceva buon viso a cattivo gioco, per farla star meglio iniziai a parlare di me, la feci ridere, la pelle contratta si sciolse per un attimo. Sulla tavola c’erano sorrisi e cibo freddo, lei raccontava come fosse immersa in un suo universo a parte mentre che io l’ascoltavo a tratti attento, a tratti distratto. Mio malgrado alla fine ero sbronzo, ridevo delle mie stesse battute, e mi distraevo da lei per ascoltare la musica che oramai stava chiudendo la serata. L’ultima canzone fu Sultans of Swing suonata piano, mi alzai e l’invitai a ballare ma non riusciva ad andare a tempo così iniziammo un lento, rimanendo in pista anche quando la musica era finita e i musicisti smontavano. Alla fine ci crollammo addosso, ci rotolammo per terra nei vestiti buoni, e ci addormentammo sul pavimento freddo, uno da una parte, una dall’altra. Verso le undici del mattino ci svegliarono. Lei mi riaccompagnò a casa, non dissi niente per tutto il viaggio, poi sotto casa mia mi disse un “Grazie”, gentile “ Dovere” risposi. 

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