In un momento
Alessandra Bertini
L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. «E’ ora di muoversi», disse.
Vicino a lei, Boris, drizzò le orecchie e agitò la coda, poi guardò
fisso la padrona negli occhi e imboccò il sentiero verso casa.
«Stamani, Boris, non c’è molto tempo».
Alle 7.00 Elena doveva essere in ospedale.
Intanto, al cospetto dell’armadio, vestirsi le sembrò impresa assai ardua.
“Dovrei forse indossare qualcosa in particolare? Ci sono forse degli abiti che si confanno a questo assurdo momento?”
Pur con qualche dubbio optò per la soluzione più comoda: jeans
larghi, snackers, e il suo caro maglione di lana d’angora verde. In
bagno, davanti allo specchio, non aveva potuto evitare una smorfia di
disappunto nel constatare i segni profondi che la notte passata in
bianco aveva lasciato sul suo viso. Tirò fuori dal cassetto il
fondotinta, ma al momento di passarlo sulle grigie occhiaie, pensò che
fosse inutile, ancor peggio stupido, voler nascondere il segno di un
dolore che mai, nessuna effimera maschera, avrebbe potuto alleviare.
“Che saranno mai questi occhi stanchi rispetto ad un cuore che si è spento?”
L’interruttore l’aveva premuto Elena stessa, straziandosi l’anima,
nel momento in cui aveva deciso di interrompere la gravidanza.
“Non sono sicura di riuscire davvero ad essere la madre di mio figlio, e questo non potrei sopportarlo”.
Era il tarlo che rodeva la mente di Elena, perché non c’è cosa
peggiore che sentirsi inadatte, specie per una madre e per il suo senso
di responsabilità. Del resto lo sapeva benissimo cosa voleva dire, lei
che un figlio lo aveva già partorito, 16 anni prima. Ricordava
perfettamente tutte le gioie, ma anche tutti gli errori commessi, anzi
adesso si sforzava di ricordare soprattutto quelli, nel tentativo di
dare una giustificazione inconfutabile alla sua scelta.
Il giorno che anche le analisi del sangue avevano confermato il
risultato del test, Elena aveva provato una rabbia pazzesca, verso se
stessa e la sua imperdonabile disattenzione, essere incinta a 45 anni,
non doveva succedere. Non quando una persona pensa di avere ormai alle
spalle i faticosi anni dell’accumulo, destinati a fare, imparare,
crescere, dimostrare e affermare il proprio valore. Non è in quel
momento che si può ricominciare tutto dall’inizio, proprio quando si è
appena iniziato a rilassarsi.
“Le poppate ogni tre ore, i pannolini da cambiare, le coliche, e poi
quando inizierà a camminare stargli dietro che non scappi o non si
faccia male. Più avanti la scuola, i compiti a casa, le prime uscite con
gli amici, il portami di qui e portami di là, fino ai 18 anni e la
patente, e quando lui avrà solo 18 anni io ne avrò già 63 e sarò vecchia
per essere in grado di dargli il supporto che una madre deve dare ad un
figlio. E se non ce la faccio? E se dovrò dirgli di no solo perché
potrei essere sua nonna piuttosto che sua madre?”
Intanto era pronta per partire, Boris aveva sufficiente mangiare
nella ciotola, suo figlio era a dormire da un compagno di classe, e suo
marito doveva ancora rientrare dal turno di notte, loro non sapevano
niente, né della gravidanza, né dell’aborto; Elena non aveva avuto il
coraggio di parlargliene, soprattutto non aveva voluto dividere il
dolore con nessuno, un modo per punire la sua codardia e il suo egoismo,
perché in fondo era così che Elena si sentiva: codarda ed egoista.
“Carlo, che per anni mi ha chiesto un secondo figlio, sarebbe così
felice che, sono sicura, non riuscirebbe, a capire i miei timori
figuriamoci la mia scelta finale, perché dovrei far sopportare anche a
lui questo strazio? Dario poi, trovarsi a 16 anni con un nanerottolo
urlante per casa ad assorbire quotidianamente le attenzioni di tutti,
senza dubbio ne soffrirebbe, proprio ora che è in una fase delicata
della vita. Come se poi di momenti difficili non ne avesse già passati”.
Il viaggio in metro, da casa al policlinico, sarebbe durato non meno
di venti minuti, fermata intermedia compresa. A quell’ora, binari e
vagoni, erano ancora semi deserti e le non molte persone presenti o
sembravano intenzionate a proseguire il sonno da poco interrotto,
oppure, probabilmente in ritardo, correvano senza fare attenzione al
resto del mondo che gli passava accanto. Eppure ad Elena sembrava che
quella gente, fosse lì per lei, per farle sentire addosso tutta la loro
disapprovazione.
“Cosa ne sapete voi di me e del mio dolore, avrò pure il diritto di
scegliere, non tutti siamo coraggiosi alla stessa maniera. Credete che
non lo sappia che potrebbe avere i miei occhi, magari i capelli biondi
di suo padre, e lo stesso caldo sorriso di Dario… e se io non riuscirò
ad essere all’altezza di tutta questa bellezza?”
Alla fermata del policlino le porte della metro si aprirono, ma prima
che Elena potesse scendere un numero imprecisato di bambini, urlanti,
in grembiule rosa o blu, si accalcarono all’ingresso ricacciandola
indietro. Facevano davvero un gran baccano, ognuno che, spingendo
l’altro, cercava di salire prima. Ad un tratto Elena vide un grembiule
rosa perdere l’equilibrio e finire a terra, ai suoi piedi, poi sentì un
forte singhiozzare.
«Ti sei fatta male?»
Due occhioni carichi di lacrime la fissarono. Elena aiutò la bambina a
rialzarsi, continuava a piangere, pensò di confortarla abbracciandola,
il gesto le uscì fuori un po’ goffo, ma sincero, e la piccola ricambiò
gettandogli le braccia al collo. Fu il calore di un momento, la bambina
si divincolò e tornò tra i suoi compagni, Elena rimase immobile, sul
treno che ripartiva.
Si dice che in un’intera vita ci siano 5, al massimo 6 momenti in
grado di cambiare un’esistenza, Elena, guardando la stazione
allontanarsi, fece un rapido calcolo e capì che i conti tornavano.
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