Elena
Simone Piani
L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte.“E’ ora di muoversi”, disse.
Ma una sagoma d’un tratto smorzò ogni suo
intento e proposito: solenne si ergeva all’angolo tra corso Piave e via
dei Martiri, lo conosceva, sapeva che la sua presenza lì era questione
di vita o di morte. E’ ora di muoversi…
L’aria sembrava essersi fatta più calda e la poesia sulla sommità degli edifici era diventata una flebile filastrocca.
Istanti immobili, poi i muscoli si
riattivarono, a testa bassa le gambe si flessero e si contrassero di
nuovo, mosse da qualcosa. La forza di volontà non c’entrava nulla, era
bisogno di sapere, capire perchè fosse arrivato proprio in quel momento,
perchè se ne stesse lì senza dire nulla, perchè di nuovo dopo tanto
tempo.
Lo raggiunse e si stupì di avercela fatta, l’aveva desiderato davvero?
L’aveva mai davvero voluto, o era stato
un capriccio, come di una bambina egoista e viziata. Quanto male aveva
generato quel desiderio, tremendo ed immortale. Un male che aveva
attraversato secoli. Elena non lo guardò in viso, le bastava percepirne
la presenza a fianco per ricordare. Era stato tanto tempo fa, così tanto
che la mente doleva a farne memoria.
Lo prese per mano e quasi come un pupazzo
di pezza, senza opporre nessuna resistenza, quasi rassegnato nei
movimenti egli la seguì e si fece trasportare.
La strada cominciava ad arretrare sotto i
loro piedi come se si riavvolgesse; anche i suoi ricordi, sfuggendo al
suo controllo, si arrotolavano. Le parve che l’aurora scomparisse e
tutto fosse tornato a quella lontana notte, il 17 maggio. Si
svegliò come da un incubo. Tutto roteava. Tutto era differente. Perchè,
perchè proprio a lei? La più bella, la preferita delle Muse, Elena
prima di Troia.
Impastata di alcol, la sua mente seguiva
malapena il suo sguardo mentre si alzava dal marciapiede fradicio di
pioggia e di sporco. Senza forze, con l’asfalto della città nel petto;
senza poterci fare nulla camminava.
Luci. Una Bmw parcheggiata, con pendaglio
a forma di dado allo specchietto retrovisore. L’asfalto viscido.
Heartbreaking Hotel. Un picchiettio dissonante della pioggia. Lo
scorrere di pneumatici sull’asfalto e l’eco di pozzanghere violate. Una
babele. Due ubriachi, fidanzati, forse conoscenti. Una vita alle spalle e
qualche anno per biasimarla. Louis Vouitton. Delle insegne accese,
delle vetrine serrate.
Un vecchio campanile avrebbe risuonato, battendo tre volte.
Nello sconquasso che porta le ferite di
un’altra giornata, nella New York del profondo della notte, il rumore
era una pastosa sarabanda di strumenti artificiali.
Ebbene dove erano i vecchi templi alti appena come dieci uomini? Le vecchie strade, ricoperte da ciottoli ognuno essenziale, differente?
Ebbene dove erano i vecchi templi alti appena come dieci uomini? Le vecchie strade, ricoperte da ciottoli ognuno essenziale, differente?
Le persone, da dove veniva, ridevano
anche se gonfie di vino. In quel luogo che lei non capiva vomitavano,
barcollavano e invocavano una sbronza per dimenticare quella precedente.
Quella città le pareva gracchiasse come un corvo e si impregnasse di
vapore maleodorante, di gas di scarico, come le piume di uno sparviero
sotto il diluvio. Quanto le mancava la sua terra, a misura d’uomo. Da
quando nacque e fu allevata nella casa di Tindaro fino ad essere
promessa sposa di Menelao re di Sparta. E poi quando, come toccò a
Pompei ed Ercolano, un vulcano di nome Paride le sconquassò la vita.
I suoi passi procedevano uguali e
automatici su quei neri sentieri, la sua attenzione si spostò su un
locale saturo di note distorte, di stereoscopiche figure e di caldi
umori. Quanti mondi conteneva quella scatola? Entrò.
Elena mentre teneva per mano Paride si
ricordò che era proprio in quel bar che lo aveva rivisto per la prima
volta, sperduta, disorientata, vittima e carnefice di se stessa,
l’immortale Elena. Allora non le aveva risposto, le era sfuggito, come
fumo tra le mani.
Ora però, con prepotenza, senza nemmeno chiederle il permesso, era lì con lei, o per lei.
Attraversarono un corso, il semaforo lampeggiava di una pallida luce arancione.
“Perchè sei qui?”. Si stupì della chiarezza con cui la sua voce si era fatta viva. Silenzio. “Perchè sei qui?!” riprovò.
“Per riportarti a casa”. Qualcosa in lei
si spezzò. Possibilità, desideri, equilibri instabili, mondi che si
erano sovrapposti in modo imperfetto e che si sgretolavano ora sotto il
peso di poche parole.
“Come?”.
“La tua guerra dura ormai da troppo tempo.”
“Tu, Paride, maledetto il padre che ti generò, l’hai voluta! La guerra è tua! Sei pazzo”.
“Elena calmati adesso, stai urlando.”
Si voltò per guardarlo in faccia per la prima volta dopo secoli.
Le venne da piangere, ma a forza si trattenne; solo un singhiozzo.
Era esattamente lo stesso Paride che
aveva conosciuto in mezzo a quei Troiani stranieri, al suo banchetto
nuziale? Ogni singolo ricciolo le riportava alla mente le grida di
uomini trafitti dalle lance, gli zigomi come scogli che affondavano le
navi, gli occhi come braceri ardenti, come fuoco dirompente. Eppure lo
amava. Lo amava più di quanto avesse mai amato se stessa, la sua patria,
i suoi avi. Per lui aveva scelto di non morire, per lui aveva
sopportato ogni uccisione, ogni massacro. Pazza. Ebbra. Ed ora strade
colanti fango e benzina. Si odiava, lo amava e odiava tutto quello che
erano stati. Gli avrebbe strappato via le labbra. Si battè il petto e
cadde a terra. Le ginocchia si ferirono sul ruvido asfalto.
Elena l’immortale, che era stata il
premio di due nazioni, Elena che ora stava rannicchiata ai piedi di un
uomo su un marciapiede di una cupa città.
Il dottor Paride Alessandro prese tra le
braccia quella creatura spezzata dalla febbre e chiamò a voce alta e
sicura gli infermieri che stavano poco più in là, in attesa di
istruzioni. La sua guerra interiore andava fermata, la sua mente del
resto non avrebbe sopportato altra sofferenza.
“Preparate la stanza, appena arriviamo.”
intimò ai camici bianchi che, rapidi, li raggiungevano. E’ l’ultima
volta che scappa, povera ragazza.
E intanto Elena cantava: «E molte vite sono morte per me sullo Scamandro, e io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta, ritenuta da tutti traditrice di mio marito e rea d’aver acceso una guerra tremenda per la Grecia.»
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