mercoledì 21 gennaio 2015

provini - Ti strapperò l'amore, Matteo Iacobucci

TI STRAPPERO’ L’AMORE 

Matteo Iacobucci


L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. 
“E’ ora di muoversi”, disse. 

Non l’avrebbe mai immaginato. Era impossibile che l’amore – anche quello ormai morto e sepolto sotto una caterva di bugie e scuse patetiche – facesse così male.«Pensi sia davvero necessario?» le chiese Ivano.Elena arrestò il passo e lo guardò. Il suo volto era sudaticcio e pallido, i capelli castani accarezzavano appena la fronte. La ragazza non poté fare a meno di sorridere, ma fu solo un impercettibile raggio di sole nella tempesta interiore che stava affrontando. «Ivano, tu sei tutto per me».
Il ragazzo arrossì.
«Sai che non ho scelta. Giancarlo mi tiene in pugno».
«Ci tiene in pugno» precisò Ivano. «Credi che io non soffra per la piccola Gabriella?».
Elena pazientò qualche attimo prima di rispondere. «Non ho mai detto questo».
Gliel’aveva strappata dalle mani. E lei non aveva più avuto occasione di rivederla, di darle il bacio della buonanotte. Quando si perde qualcosa di caro e prezioso, qualcosa che ci sta particolarmente a cuore, solo allora si comprende la potenza di una psiche tormentata. Elena aveva iniziato ad accusare i primi sintomi quando, nel corso dell’ultima fiera di paese, sua figlia si era improvvisamente allontanata da lei. L’aveva cercata per qualche attimo, giusto il tempo per notarla tra le figure erette che con clamore si contendevano capi di abbigliamento ai lati delle bancarelle. Sua figlia sorrideva a un uomo che lei aveva conosciuto fin troppo bene.
Giancarlo era cambiato, però. Così tanto che il loro matrimonio era naufragato dopo nemmeno un anno. L’uomo aveva salutato sua figlia alla vecchia maniera, con un piccolo bacio sulla fronte e una sfregata ai capelli biondi, poi si era chinato sulle ginocchia, le aveva sussurrato qualcosa e i due si erano incamminati verso ovest. Elena aveva accelerato il passo, ma il frenetico brulicare della gente l’aveva rallentata parecchio e quando era arrivata in zona sia Giancarlo che Gabriella si erano dissolti come vapore.
Lui le aveva telefonato la sera stessa. Aveva descritto la sua giornata con la bambina come «fantastica, meravigliosa, la migliore della mia vita». Poi, alle domande incessanti di Elena, aveva ceduto, o forse così aveva fatto credere. «Gabriella è con suo padre. Ci stiamo divertendo un mondo, non è vero?» Giancarlo aveva avvicinato la cornetta del telefono all’orecchio della piccola, che con voce stridula aveva confermato: «Papà è molto divertente!».
Elena non riuscì neanche a salutarla. Giancarlo era già ritornato. L’acustica cambiò e la ragazza immaginò che il suo ex marito si fosse spostato in un’altra stanza.
«La porterò con me in Turchia» aveva detto Giancarlo.
«No, tu …».
«È il mio lavoro che mi impone di andare lì. Non voglio perdere mia figlia».
«Il tribunale ha detto che puoi vederla due volte a settimana, non…».
Giancarlo aveva urlato: «Me ne fotto delle sentenze del tribunale!» poi aveva provato a riacquistare la calma e il suo tono era ridiventato placido. «Voglio la tua vita» le aveva detto. «Tu hai preso la mia e l’hai rovinata. Io pretendo la tua. Oppure porterò via per sempre nostra figlia. Non provare a chiamare la polizia, primo perché non riusciranno mai a localizzarmi, secondo perché commetterò una follia e tu sai quale. Nove marzo. Ci incontreremo sulla vecchia collina appena fuori città, a circa duecento metri dall’inizio dei quartieri residenziali. Vieni all’alba».
«No, aspetta, ascolta, io …».
Poi Elena aveva contemplato solo il ronzio della linea morta.
La sua vita in cambio di quella della sua bambina. A primo impatto le era parso uno scambio alla pari, ma poi aveva riflettuto a fondo e pianto durante le notti infinite che l’avevano separata dalla data prefissata per l’incontro. Giancarlo non l’aveva mai perdonata. Ivano era sempre stato per lei come un fratello, ma quella maledetta sera, stordita dall’alcol, aveva ceduto alle sue avances. Avevano fatto l’amore per ore, incuranti del pericolo del rientro a casa di Giancarlo. Lui era rincasato con qualche minuto di anticipo e quando aveva visto sua moglie con le gambe avvinghiate al collo di colui che aveva sempre considerato un buon amico, aveva dato di matto picchiandoli entrambi selvaggiamente. La polizia l’aveva arrestato e trattenuto per quattro giorni. Una volta fuori erano iniziate le pratiche per il divorzio. Il fallimento di quella bella storia d’amore era dipeso da entrambi, dalla superficialità di Elena e dallo scarso senso di responsabilità di Giancarlo, lavoratore precario, marito a mezzo servizio, padre assente.
La luce rossa dell’alba ne delineava appena la silhouette. Il fisico era protratto in avanti, lo sguardo fisso a metà tra lei e Ivano. Era alienato. Lei gli aveva strappato il cuore, lui voleva strappare lei alla vita. Semplice, crudele, spaventoso. Non appena Elena e Ivano arrivarono in cima alla collina, Giancarlo lasciò andare la piccola. La salutò e la bambina si tuffò tra le braccia di Ivano. Bastò uno sguardo di Elena per far sì che Ivano si congedasse salutandola con un triste bisbiglio.
Elena fissò Giancarlo. Lui fece dieci passi in avanti ed estrasse una pistola. Elena non era esperta di armi, ma era sicura che fosse una delle più potenti. Giancarlo la guardò negli occhi ancora una volta. Elena decise di attendere il buio ad occhi aperti. Il colpo esplose.
Giancarlo se lo inflisse alla tempia dopo aver sussurrato: «Ho fallito». Cadde a terra inerme e si posò violentemente sull’erba. Il cranio era immobile come quello di una marionetta. Il sangue raggiunse le scarpe di Elena, che con un respiro affannoso sembrò fondersi col rosso del cielo. Quell’incubo sarebbe stato infinito. L’avrebbe rivisto negli occhi di sua figlia.

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