mercoledì 21 gennaio 2015

provini - Rinascita, Barbar Bolles

RINASCITA
Barbara Bolles


L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. E’ ora di muoversi, disse.

Si sedette in mezzo al letto. Doveva farlo se voleva evitare di crollare sul pavimento appena poggiati i piedi in terra. Chiuse gli occhi. Un lungo sospiro e si ripeté che era ora di alzarsi. Prima il piede sinistro e poi l’altro. Un dolore lancinante al fianco destro le strappò un lamento. Aveva trascorso la notte con gli occhi spalancati. In ospedale la tenevano sedata per calmare il dolore. A casa aveva ritrovato tutti i suoi fantasmi a darle il bentornata. Ogni notte erano sempre di più, a quelli recenti si stavano aggiungendo quelli del passato. Vedere la luce dell’alba era un sollievo.


Tutta la sua vita era stata una lunga serie di errori. Nelle ultime settimane non faceva altro che pensare al padre. Non erano mai andati d’accordo. In effetti non c’era nessun rapporto tra loro. Il padre era praticamente assente e la madre col passare degli anni si era inacidita, riversando su di lei non sapeva quali colpe, quasi fosse a causa sua che il marito cercasse fuori casa il piacere che in quelle quattro stanze non trovava o riceveva. Anche con il fratello non andava granché bene. La trattava come una sua proprietà ed era gelosissimo persino delle sue amiche. Elena aveva provato a parlarne con la madre, ma non aveva ricevuto né risposte né aiuto. Nemmeno quando il fratello aveva abusato di lei.

Aveva dodici anni. Dormivano nella stessa camera e una notte se lo ritrovò nel letto con la scusa del freddo. Rocco era più grande di quattro anni. Elena gli voleva bene, e con spontaneità si era accoccolata al suo fianco. Dopo qualche minuto la mano del fratello aveva iniziato a frugarla: non capiva perché le facesse il solletico, e le dava fastidio il suo respiro affannoso nell’orecchio. Gli disse di fermarsi, ma il ragazzo le tirò giù pigiama e mutandine e continuò a toccarla, sempre più in profondità. Infine sentì un dolore mai provato.

Da allora il fratello la visitò quasi tutte le sere per i cinque anni successivi. Non reagiva più, restava ferma, passiva, cominciava a proiettare nella sua mente immagini di prati pieni di fiori o enormi spiagge con candida sabbia dolcemente lambita da spumose onde bianche, aspettava che il supplizio finisse.

Quando conobbe Federico le sembrò di aver toccato il cielo con un dito. Era dolce, premuroso, sempre attento. Si vedevano di nascosto temendo l’ira di Rocco. Dopo sei mesi scapparono e andarono a Nizza. Qui attesero che lei diventasse maggiorenne e ritornarono in Puglia.

Elena non sapeva cosa volesse dire gestire una casa, cucinare e tutte le altre faccende che riguardavano l’economia domestica. A Nizza Federico l’aiutava, il più delle volte era lui a cucinare, e se lei si rammaricava lui rispondeva che avrebbe avuto tempo per imparare.

Il tempo passava ma era difficile imparare. E allora Federico ogni tanto la prendeva a schiaffi, per il suo bene diceva, perché imparasse e ricordasse. Elena incassava e non rispondeva, sapeva di essere un’inetta. Schiaffi, pugni, calci, cominciarono ad essere sempre più frequenti. Non c’era nulla che le riuscisse anche solo benino, e allora giù sberle per rinfrescarle la memoria. Federico non si fermò neppure quando Elena rimase incinta o dopo la nascita di Francesca. Nuovi pretesti si erano aggiunti: i pianti della piccola, i capricci, i piccoli pasticci dei bambini, qualche brutto voto a scuola, le prime passeggiate con le amichette. Federico si arrabbiava per qualunque cosa, ma non toccava la figlia. La colpevole era sempre Elena, così alle percosse che le spettavano di diritto si aggiungevano anche quelle destinate alla figlia. «Sei una cattiva madre» le diceva, «non hanno saputo educarti, non sei in grado di educare tua figlia, allora devo farlo io», e giù botte.

A quindici anni Francesca era diventata una bellissima ragazza, somigliava in modo impressionante alla madre. Federico era molto orgoglioso di lei e, chiaramente, molto geloso. Quando la guardava, la figlia provava disagio, sentiva su di sé lo sguardo del desiderio. Anche Elena lo aveva notato, ma non voleva credere a quello che vedeva o soltanto percepiva.

Un pomeriggio Elena era rientrata a casa inaspettatamente, aveva dimenticato il portafogli. Non appena aperta la porta aveva sentito prima la voce alterata del marito e poi quella spaventata della figlia. Immaginando con terrore cosa stesse accadendo, come una furia era corsa in cucina, aveva preso un coltello dal cassetto e si era precipitata nel soggiorno. Il marito, nudo dalla cintola in giù, era a cavalcioni della figlia. Cieca di rabbia Elena gli aveva conficcato il coltello in una spalla. Dopo un attimo di smarrimento Federico si era girato e strappandosi il coltello dalla spalla si era avventato sulla moglie, schiaffeggiandola, prendendola a pugni, colpendola e trafiggendola come un forsennato. Francesca li guardava inorridita poi sparì dal campo visivo della madre. Quando riapparve stringeva un coltello nella mano destra. Arrivò alle spalle del padre, guardò la madre per qualche secondo e affondò la lama nel cranio dell’uomo.


Elena, seduta al tavolo della cucina, aveva davanti a sé la tazza del caffè e la fissava smarrita. Si chiedeva come fosse stato possibile tutto quell’orrore, come avesse potuto sopportare tutte quelle violenze, come avesse potuto dimenticare la sua umanità, la sua dignità e soprattutto come avesse potuto permettere a quell’orco di suo fratello prima e suo marito poi di calpestare la sua vita e attentare a quella della figlia. Era finita, si disse. Doveva prendersi cura di Francesca, la sola cosa vera e bella di quella sua vita maledetta. L’unica che le fosse rimasta.

Non poteva perdere altro tempo.

Era ora di muoversi.

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